Il rapporto tra politica e mafia è certamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e della storia delle forze politiche e delle istituzioni del nostro Paese. Nonostante l'abbondante produzione di materiali sull'argomento, sotto forma di libri e servizi giornalistici di denuncia, di documenti politici, di relazioni di organi ufficiali, non possiamo dire che finora il tema sia stato adeguatamente affrontato in tutte le sue implicazioni. I concetti impiegati per designare i rapporti tra politica e mafia e viceversa sono spesso generici o inadeguati: si parla di contiguità e di coabitazione, mentre rimangono in secondo piano o restano irrisolti o neppure affrontati problemi di fondo che riguardano la definizione di mafia e la configurazione dei rapporti di dominio e subalternità così come si sono determinati nello scenario politico-istituzionale italiano. Nel tentativo di contribuire a chiarire questi temi di fondo propongo, per ragioni di ordine espositivo, un rovesciamento dei due termini. Prima affronteremo il tema dalla parte della mafia e dopo dalla parte della politica.
Dalla parte della mafia. La mafia come soggetto politico e la produzione mafiosa della politica Si è discusso se la mafia abbia una strategia politica o se intrecciando rapporti con soggetti dell'universo politico si limiti a stringere alleanze tattiche. Secondo la relazione su mafia e politica della Commissione antimafia, Cosa nostra, che rappresenta il gruppo più consistente della mafia siciliana, "ha una propria strategia politica. L'occupazione e il governo del territorio in concorrenza con le autorità legittime, il possesso di ingenti risorse finanziarie, la disponibilità di un esercito clandestino e ben armato, il programma di espansione illimitata, tutte queste caratteristiche ne fanno un'organizzazione che si muove secondo logiche di potere e di convenienza, senza regole che non siano quelle della propria tutela e del proprio sviluppo. La strategia politica di Cosa nostra non è mutuata da altri, ma imposta agli altri con la corruzione e la violenza" (Commissione antimafia 1993). Resta da vedere se questa strategia non venga praticata anche in forza di convergenze di interessi e di accordi stipulati senza bisogno di ricorrere alle armi e alle minacce. Per qualche studioso si tratterebbe solo di alleanze tattiche (Lupo 1993, p. 229). Per avere una visione più adeguata bisognerebbe in primo luogo interrogarsi sulla natura dell'associazionismo mafioso. Ad avviso di chi scrive, anche utilizzando la letteratura più avvertita, la mafia può considerarsi soggetto politico, in duplice senso: "1) in quanto associazione criminale la mafia è un gruppo politico, presentando tutte le caratteristiche individuate dalla sociologia classica per la definizione di tale tipo di gruppo; 2) essa concorre come gruppo criminale e con il blocco sociale di cui fa parte alla produzione della politica in senso complessivo, cioè determina o contribuisce a determinare le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse" (Santino 1994, pp. 12 s.). Per la definizione di gruppo politico possiamo rifarci alla classificazione di Max Weber che nel primo volume della sua Economia e società, dedicato alla Teoria delle categorie sociologiche, comincia con il definire il gruppo sociale: "Una relazione sociale limitata o chiusa verso l'esterno mediante regole deve essere chiamata gruppo sociale quando l'osservanza del suo ordinamento è garantita dall'atteggiamento di determinati uomini, propriamente disposti a realizzarlo - cioè di un capo e, eventualmente, di un apparato amministrativo, che in dati casi ha anche potere di rappresentanza". Un gruppo sociale è sempre un gruppo di potere quando esiste un apparato amministrativo e per potere "si deve intendere la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto". Segue la definizione di gruppo politico: "Un gruppo di potere deve essere chiamato gruppo politico nella misura in cui la sua sussistenza e la validità dei suoi ordinamenti entro un dato territorio con determinati limiti geografici vengono garantite continuativamente mediante l'impiego e la minaccia di una coercizione fisica da parte dell'apparato amministrativo". La riflessione viene perfezionata con la seguente definizione di Stato: "Per Stato si deve intendere un'impresa istituzionale di carattere politico nella quale - e nella misura in cui - l'apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell'attuazione degli ordinamenti" (Weber 1981, pp. 47 ss.). Come associazione criminale con caratteri specifici (si possono richiamare gli elementi indicati dall'art. 416 bis della legge n. 646 del 13 settembre 1982, o legge antimafia: forza di intimidazione del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti e per acquisire direttamente o indirettamente la gestione e il controllo di attività economiche, concessioni, appalti ecc. o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri) la mafia presenta i caratteri fondamentali dei gruppi politici: un ordinamento, cioè un insieme di norme, una dimensione territoriale, la coercizione fisica, un apparato amministrativo in grado di assicurare l'osservanza delle norme e mettere in atto la coercizione fisica. Per designare sinteticamente questa pluralità di funzioni ho adoperato l'espressione signoria territoriale, una forma totalitaria di controllo all'interno e all'esterno, che va dalle attività economiche alla vita personale e relazionale. La mafia concorre alla produzione della politica agendo all'interno del blocco sociale o sistema relazionale egemonizzato da soggetti illegali e legali (borghesia mafiosa), in vari modi: uso politico della violenza, formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, controllo sull'attività politico-amministrativa. L'uso politico della violenza si realizza attraverso l'ideazione e l'esecuzione dei cosiddetti delitti politico-mafiosi e delle stragi. I delitti politico-mafiosi mirano a colpire non solo uomini politici o membri della magistratura e delle forze dell'ordine ma anche altri impegnati a vario titolo contro la mafia e l'illegalità e obbediscono a esigenze complessive di salvaguardia degli interessi delle organizzazioni mafiose e di altri soggetti ad esse collegate, interrompendo processi orientati in senso sfavorevole o innescando e rafforzando dinamiche socio-politiche favorevoli al perseguimento di determinati interessi. Si tratta il più delle volte di atti di violenza mirata ma possono esserci anche atti di violenza diffusa, come nel caso delle stragi che hanno colpito indiscriminatamente militanti e partecipanti alle manifestazioni del movimento contadino. A innescare questa vera e propria politica della violenza possono concorrere vari soggetti (gruppi criminali, gruppi terroristici, logge massoniche, servizi segreti ecc.) in nome di una convergenza di interessi e con la mobilitazione di una pluralità di autori; ma la corresponsabilità di più soggetti, ipotizzabile nella ricostruzione delle dinamiche che portano all'evento criminoso, è difficilmente dimostrabile in sede giudiziaria, non solo per difficoltà oggettive ma soprattutto per effetto di operazioni di nascondimento e di depistaggio quasi sempre portate a buon fine. Non per caso gran parte delle stragi consumate nel nostro Paese, con o senza la partecipazione di soggetti mafiosi, è rimasta impunita. La formazione delle rappresentanze istituzionali può avvenire attraverso la selezione dei quadri, il ruolo nelle campagne elettorali, il controllo del voto o anche attraverso la partecipazione diretta di membri delle organizzazioni mafiose o di soggetti ad essa legati alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive. Il controllo sull'attività politico-amministrativa si realizza attraverso rapporti con gruppi politici e apparati burocratici, dagli enti locali alle istituzioni centrali, e dà vita a una tipologia variegata che va dallo scambio, limitato o permanente, all'identificazione-compenetrazione, all'affinità culturale e alla condivisione degli interessi. La produzione mafiosa della politica implica una visione della mafia che rifugge da stereotipi diffusi come quelli dell'antistato o del vuoto di Stato. Si è parlato di mafia come antistato soprattutto in relazione ai delitti che hanno colpito uomini delle istituzioni e il vuoto di Stato è un luogo comune che attraversa la storia della Sicilia e dell'intero Mezzogiorno, segnata dalla costituzione di una forma-Stato che ha istituzionalizzato i rapporti di forza esistenti. In realtà la mafia ha un doppio volto. Per un verso ha un suo ordinamento e un sua giustizia (l'omicidio per i mafiosi non è un reato ma una sanzione applicata a chi non si piega ai loro voleri o si contrappone ai loro interessi) e su questi terreni non riconosce il monopolio statale della forza, quindi è fuori e contro lo Stato. Per un altro verso, per le sue attività legate al denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica, la mafia è dentro e con lo Stato. A questa doppiezza della mafia corrisponde, come vedremo, una doppiezza dello Stato, nel senso che esso rinuncia parzialmente al monopolio della forza, legittimando la violenza mafiosa attraverso l'impunità, tutte le volte che viene operata una delega di fatto alla mafia di compiti repressivi. Abbiamo parlato di una variegata tipologia di rapporti ed espressioni come "contiguità" (impiegata, ad esempio, nella requisitoria del maxiprocesso: in Santino 1992, ma ampiamente diffusa) e "coabitazione" (impiegata nella Relazione su mafia e politica del 1993) colgono una parte di tali rapporti, mentre per altri è più adeguata l'espressione "compenetrazione organica" (impiegata sempre nella requisitoria del maxiprocesso). L'Ufficio Istruzione che ha preparato il maxiprocesso, nel commentare le affermazioni della requisitoria, riprendeva l'espressione "contiguità" ma a proposito degli omicidi politici ne sottolineava l'inadeguatezza: "Nella requisitoria del P.M. si fa riferimento alla "contiguità" di determinati ambienti imprenditoriali e politici con Cosa nostra. Ed indubbiamente questa contiguità sussiste anche se è stata scossa, ma non definitivamente superata, dai tanti tragici eventi che hanno posto in luce il vero volto della mafia. Ma qui si parla di omicidi politici, di omicidi cioè in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente "voltare pagina"" (in Santino 1992). La sentenza di primo grado riprendeva le varie espressioni impiegate per designare il rapporto tra mafia e politica e tracciava un profilo sintetico della natura istituzionale di Cosa nostra, che sarebbe insieme: contropotere, per la sua natura criminale; potere annidato nel contesto sociale, capace di adattarsi ai mutamenti delle condizioni storiche; ordinamento giuridico che ha in comune con la forma Stato i caratteri essenziali: un territorio, un codice, affiliati che vi si attengono e altri che vi si adattano; gruppo di pressione che programma e realizza piani di estensione geografica e di rafforzamento del ruolo a livello nazionale e internazionale (in Santino 1992,1994) Una rappresentazione che coglieva la complessità del fenomeno mafioso e l'articolazione dei ruoli che esso ha esercitato nei suoi rapporti con la politica e l'assetto istituzionale.
Dalla parte della politica. La criminalità del potere e la produzione politica della mafia Abbiamo già accennato al ruolo della Democrazia cristiana, per quasi mezzo secolo partito di maggioranza relativo e architrave del sistema di potere. Nella relazione di maggioranza che chiuse i lavori della Commissione parlamentare antimafia (1976) si dice che la mafia è un fenomeno di classi dirigenti (affermazione che valeva soprattutto per le origini), che la sua specificità è "costituita dall'incessante ricerca di un collegamento con i pubblici poteri", che la DC presentava un indice di personalizzazione (rapporto tra voti di lista e voti di preferenze) più elevato di altri partiti e che il voto di preferenza favoriva l'infiltrazione mafiosa e si puntava il dito sul ruolo di Vito Ciancimino, dirigente democristiano, assessore comunale e per qualche tempo sindaco di Palermo. La relazione di minoranza presentata dal PCI indicava nel gruppo dirigente democristiano siciliano, che avrebbe imbarcato forze liberali e monarchico-qualunquiste legate ai boss mafiosi, il referente politico di una mafia capace di adattarsi ai mutamenti del contesto (Commissione antimafia 1976). Successivamente nella riflessione su fenomeni come la loggia massonica P2, i comportamenti dei servizi segreti cosiddetti "deviati", il ricorso alle stragi per arrestare processi di rinnovamento del quadro politico che mettevano in forse l'assetto internazionale, si è utilizzato un concetto elaborato per l'analisi dello Stato nazista (Fraenkel 1983). Mi riferisco alla teoria del "doppio Stato", fondato su una duplice lealtà dei gruppi dirigenti, verso il proprio Paese e verso lo schieramento internazionale (De Felice 1989). Anche chi scrive ha parlato di una doppiezza dello Stato come schema teorico utilizzabile per analizzare fenomeni come la legittimazione della violenza mafiosa e l'uso illegale della violenza da parte di apparati istituzionali o di soggetti ad essi legati, senza però farne una sorta di dogma interpretativo multiuso (Santino 1994, 1997b) In sintesi violenza e illegalità sono state una risorsa a cui si è fatto ricorso quando la normale dialettica non riusciva a governare il conflitto sociale o a controllare le dinamiche politiche. Si può parlare di criminalità del potere, con riferimento a tutti quegli eventi che dimostrano che per salvaguardare un determinato assetto di potere, perpetuare l'egemonia di determinate forze politiche, garantire il rispetto dei limiti imposti dalla spartizione del mondo in grandi aree di influenza, non si è esitato ad ideare ed eseguire atti criminosi, come le stragi, o a tollerane il compimento, depistando o insabbiando le indagini per accertare le responsabilità. Con l'espressione produzione politica della mafia si possono intendere le varie forme con cui forze politiche e istituzioni "contribuiscono a sostenere e sviluppare la mafia, dall'assicurazione dell'impunità per i fatti delittuosi alle attività collegate con il funzionamento delle istituzioni stesse e con l'uso del denaro pubblico. Tali forme possono arrivare fino a configurare un'istituzionalizzazione formale o sostanziale della mafia (criminocrazia) e/o la mafiosizzazione delle istituzioni" (Santino 1994). Questo non significa che tutto è mafia, ma che si sono realizzate forme di privatizzazione-clandestinizzazione-criminalizzazione delle attività politiche, configurabili come una sorta di forma-mafia, che ha visto soggetti come i gruppi neofascisti, legati a uomini di potere, i servizi segreti, le logge massoniche in cui figuravano vertici delle istituzioni, mettere in atto eventi criminosi che niente avevano a vedere con l'uso legittimo del monopolio della forza. Per quanto riguarda più precisamente il rapporto con la mafia, la legittimazione della violenza con la garanzia dell'impunità ha comportato una demonopolizzazione, cioè una rinuncia al monopolio della forza, elemento costitutivo della moderna forma-Stato (Bobbio 1976). Lo Stato ha recuperato il monopolio della forza per tamponare un'escalation di violenza che tracimava oltre i limiti consentiti, come nel caso della strage di Ciaculli (1963), in cui caddero sette uomini delle forze dell'ordine, dei delitti e delle stragi che hanno colpito personaggi come Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino (sono questi i delitti che hanno scatenato rilevanti effetti boomerang). E questo recupero è stato effettuato in una logica più emergenziale che strategica. Questo è stato il limite di fondo delle politiche criminali del nostro Paese. Anche per quanto riguarda più propriamente il terreno politico, cioè delle competizioni elettorali e della selezione delle rappresentanze, non si andati al di là dell'elaborazione di fattispecie inadeguate e parziali, come quella che prevede lo scambio elettorale politico-mafioso, limitato alla compravendita di voti, attraverso lo scambio tra somme di denaro e la promessa di voti (legge 7 agosto 1992 n. 356, art. 11 ter). La formulazione iniziale era più ampia e più rispondente alla realtà, prevedendo l'acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti ecc., ma è stata ristretta tanto da ridurne, se non cancellarne, l'efficacia. La responsabilità politica, di cui parlava la relazione della Commissione antimafia del 1993, approvata in pieno clima di emergenza, che dovrebbe concretarsi in un giudizio di incompatibilità con l'esercizio di una funzione pubblica per le persone responsabili di fatti non necessariamente definibili come reati ma pur sempre gravi, è rimasta sulla carta e negli ultimi anni si è assistito a un fatto inedito nella storia dell'Italia repubblicana: la candidatura e l'elezione di personaggi sotto processo per mafia, accompagnate da attacchi di inusitata violenza alla magistratura, responsabile di perseguire uomini di potere, in nome dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Un'altra forma di legalizzazione dell'illegalità che si aggiunge alle leggi a tutela di interessi personali e a salvaguardia dell'impunità di personaggi che si sono dati alla politica per sfuggire ai loro problemi giudiziari e che un elettorato non molto dotato di senso civico premia con valanghe di voti, anche come effetto di un sistema maggioritario che cancella e mortifica le minoranze. In questo clima i processi ai politici e ai rappresentanti delle istituzioni incriminati per i loro legami con la mafia (da alcuni politici locali ad Andreotti, il cui processo si è concluso con un esito bifronte) hanno avuto risultati impari rispetto a quelli che riguardano l'ala militare, l'accertamento della verità sulle stragi segna il passo e l'intreccio tra il potere del crimine e la criminalità del potere vive una stagione di cui non si vede la conclusione.
Mafia e forze politiche La mafia non ha ideologia ma ha una spiccata e scaltrita cultura del potere. Nei rapporti con le forze politiche la mafia siciliana ha mostrato una grande capacità di elasticità e di adattamento al mutare del quadro politico e al succedersi dei detentori del potere. Così essa è stata, esclusivamente o prevalentemente, liberale, democristiana e ora è legata ai soggetti politici affermatisi negli ultimi anni. Significativo il comportamento dei mafiosi nelle fasi di transizione, quando varie forze politiche sono in corsa per il potere. Limitandoci al secondo dopoguerra, nei primi anni Quaranta del XX secolo, il ricorso al separatismo, a ridosso dei grandi proprietari terrieri, ebbe soprattutto il significato di un'operazione strumentale mirante ad ottenere un'autonomia regionale che salvaguardasse gli interessi e il potere degli strati dominanti. Alcuni capimafia, come Calogero Vizzini, costituivano insieme la sezione del Partito separatista e quella della Democrazia cristiana, puntavano contemporaneamente su due cavalli, attivandosi per assicurare l'affermazione di quello che si presentava più favorito per vincere la corsa. La vittoria del Blocco del popolo alle elezioni regionali del 20 aprile 1947 stimola l'accentuazione della violenza, già messa in atto per fermare l'avanzata del movimento contadino, e si avrà la strage di Portella del primo maggio, che in concorso con altre scelte maturate a livello nazionale e internazionale, avrà una immediata valenza strategica con l'espulsione delle sinistre dal governo nazionale e con il divieto al loro ingresso in quello regionale. La fase dei governi centristi vede la mafia solidamente attestata con il partito di maggioranza relativa e pronta a ricorrere ancora alla violenza, garantendosi il ruolo di forza armata e di baluardo contro il comunismo, fino alla sconfitta finale del movimento contadino (con una controriforma agraria che stimola gran parte del mondo contadino a scegliere la via dell'emigrazione) e all'assottigliamento della consistenza delle forze di opposizione, emarginate dall'assetto di potere costituito. In questa fase che va dagli anni '50 agli anni '60 la mafia si assicura un canale privilegiato di accesso al denaro pubblico, estendendo e radicando il suo sistema relazionale con i rapporti intessuti con professionisti, imprenditori, amministratori e politici, configurandosi come una forma di borghesia di Stato (Santino - La Fiura 1990, pp. 111 ss.). Il rapporto pattizio si incrina per il lievitare dell'accumulazione illegale e della richiesta di occasioni di investimento e di spazi di potere. I delitti che colpiscono uomini del partito di maggioranza (Michele Reina nel 1979, Piersanti Mattarella nel 1980) hanno un preciso significato: la mafia non tollera le aperture politiche verso l'opposizione e in particolare verso il Partito comunista e considera un intralcio ai suoi interessi le azioni moralizzatrici che toccano terreni scottanti come quello degli appalti di opere pubbliche. Il messaggio arriva a segno: le aperture vengono archiviate e al governo della regione vanno personaggi più affidabili (Santino 1989, pp. 287 ss.). Il patto viene definitivamente sciolto con l'uccisione di Salvo Lima (12 marzo 1992), a cui si rimprovera di non aver cancellato gli effetti del maxiprocesso che si è concluso con pesanti condanne per una serie sterminata di omicidi, interni ed esterni, che hanno insanguinato gli anni '80. Il delitto, che colpisce uno dei personaggi più emblematici del rapporto mafia-politica per decenni, è una sorta di lastra tombale su un intero periodo storico. La mafia ora è alla ricerca di nuovi interlocutori all'interno di un quadro politico profondamente mutato, in cui figurano forze politiche nate sulle ceneri di partiti storici, travolti dai processi per corruzione (la cosiddetta Tangentopoli). Nel 1989 è caduto il muro di Berlino, il socialismo reale è imploso e la mafia ha perduto il suo ruolo storico di baluardo contro il comunismo, in un contesto formalmente aperto ma in realtà sbarrato alle forze di sinistra (quella che ho chiamato "democrazia bloccata": Santino 1997b). L'ondata di stragi del 1992 e '93 è il frutto del delirio di onnipotenza criminale dei cosiddetti corleonesi o è suscitata anche da altri soggetti che mirano a condizionare le dinamiche in atto per determinare i nuovi assetti di potere? La risposta giudiziaria, che ha colpito capi e gregari di Cosa nostra, ha lasciato irrisolto questo interrogativo che rischia di aggiungere un altro capitolo al libro dei cosiddetti misteri italiani Quel che è certo è che mafiosi hanno capito che per stringere nuove alleanze debbono controllare la violenza, soprattutto quella rivolta verso l'alto, e per gli ultimi anni si parla di "mafia sommersa" o inabissata, capace di controllare capillarmente il territorio, di inserirsi nella spartizione del denaro pubblico destinato alle grandi opere, sorretta da una borghesia mafiosa diffusa, forte di legami con personaggi del nuovo scenario politico. Stando anche a inchieste giudiziarie in corso, le forze politiche a cui si rivolgono le maggiori attenzioni sono Forza Italia e l'Udc, che rappresenta nella realtà siciliana la linea di continuità con il sistema di potere democristiano.
venerdì 21 novembre 2008
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