
Falcone e Borsellino: due nomi, un solo luogo del nostro immaginario collettivo, a testimonianza di una tragedia che ha colpito tutti, un intero popolo. E' difficile scindere questo binomio, impossibile parlare di Giovanni, senza immediatamente ricordare Paolo. Nella nostra mente si è insediato un automatismo che sarà difficile rimuovere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano uniti in vita, legati da un “mestiere” che per loro era missione: liberare la società civile dall'oppressione della mafia che nasce, vive in Sicilia.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino eroi soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee, per aver rifiutato la via facile dell'accomodamento e del quieto vivere. La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi prima ancora di mettere piede nell'Isola perché l’aereoporto è stato dedicato a loro. I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. “Invenzione” di Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti punti, innanzitutto l'esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa Nostra. Già, il maxiprocesso. Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte. Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio cifrato del “baccaglio” mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e “tragedie” inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei poi “arruolati” dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che conoscevano e capivano per-
fettamente per averne trafugato, a suo tempo, la chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice “parola d'onore” che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli. Eppure Falcone e Borsellino non dovevano vedersela solo coi “bravi ragazzi” che maneggiano pistole, eroina e tritolo. La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati neppure nelle stanze che contano.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino eroi soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee, per aver rifiutato la via facile dell'accomodamento e del quieto vivere. La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi prima ancora di mettere piede nell'Isola perché l’aereoporto è stato dedicato a loro. I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. “Invenzione” di Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti punti, innanzitutto l'esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa Nostra. Già, il maxiprocesso. Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte. Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio cifrato del “baccaglio” mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e “tragedie” inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei poi “arruolati” dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che conoscevano e capivano per-
fettamente per averne trafugato, a suo tempo, la chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice “parola d'onore” che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli. Eppure Falcone e Borsellino non dovevano vedersela solo coi “bravi ragazzi” che maneggiano pistole, eroina e tritolo. La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati neppure nelle stanze che contano.
Alcuni boss famosi:
Bernardo Provenzano
Nato il 31 gennaio 1933 a Corleone, da sempre uno dei capi più misteriosi di Cosa Nostra, per la mancanza di notizie certe sul suo conto. Non è un caso se, pur essendo attualmente in cima alla lista dei grandi latitanti, per molto tempo venne invece dato vittima della lupara bianca. Insieme all'amico Totò Riina, iniziò la carriera criminale nella banda di Luciano Liggio, che espresse nei suoi riguardi un famoso e lapidario commento: " Provenzano spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una gallina ". Fu uno dei protagonisti indiscussi della guerra alle cosche palermitane negli anni Ottanta. Al suo attivo tre ergastoli e altri procedimenti in corso e una latitanza di oltre trent'anni. Per molto tempo è stato considerato solo un killer senza scrupoli, ma nel corso degli anni gli investigatori hanno individuato in lui una delle menti organizzatrici del riciclaggio del denaro sporco. Alcuni collaboratori infatti hanno affermato che Provenzano
è il boss che controlla gli appalti e tiene i contatti con il mondo politico.
Leoluca Cagarella
Luchino, fratello di Antonietta, la moglie di Salvatore Riina, nacque il 3 febbraio del 1942 a Palermo. A partire dagli anni Sessanta, fu un esponente di primo piano dei corleonesi e uno tra i killer più spietati. I legami con i clan della camorra napoletana, per l'organizzazione del traffico di tabacchi e stupefacenti, gli costarono le prime incriminazioni. Nel 1969 il fratello Calogero rimase ucciso nella strage di viale Lazio. Sul finire degli anni Settanta il commissario Boris Giuliano lo braccò per tutta Palermo, sequestrando, a Punta Raisi, una valigia con il pagamento in dollari di una partita di droga e infine scoprendo il suo covo. Era troppo per Bagarella che lo uccise a sangue freddo in un bar palermitano, la mattina del 21 luglio 1979.Nel settembre dello stesso anno venne arrestato e rinchiuso all'Ucciardone, dove rimase per quattro anni. Nel 1986, alla vigilia del maxiprocesso, fu tratto in manette su disposizione del giudice Falcone e rimase in carcere fino al dicembre del 1990. Latitante di nuovo dal 1992, dopo l'arresto di Riina, divenne uno dei più im-
portanti boss di Cosa Nostra, dopo uno scontro con il clan Aglieri, dal quale uscì vincente. La sua latitanza ebbe termine il 24 giugno 1995, quando venne arrestato dalla DIA
Pietro Aglieri
E' nato il 6 giugno del 1959 nel rione della Guadagna, a Palermo. Da sempre è conosciuto con il soprannome di " ' u signurinu ", a motivo della ostentata ricercatezza nell'abbigliamento. Dopo aver studiato presso il seminario arcivescovile di Monreale e aver prestato il servizio militare come paracadutista nella brigata Folgore, si fece strada all'interno dell'organizzazione, guadagnando prestigio e rispetto nel corso della seconda guerra di mafia. Con l'avvento dei corleonesi al potere, divenne il nuovo capomandamento di Santa Maria di Gesù e un influente membro della Cupola. Nel 1995 il giornale britannico The Guardian lo indicò, provocatoriamente, come l'italiano più conosciuto al mondo. In questi ultimi anni Pietro Aglieri ha occupato i posti di vertice dell'organizzazione e ha stretto un patto di alleanza con Bernardo Provenzano per la ricostruzione di Cosa Nostra, indebolita dall'arresto dei capi storici della fazione corleonese e dal proliferare dei pentiti (collaboranti di giustizia). E' stato arrestato, dopo otto anni di latitanza, alla periferia di Bagheria, a Palermo, il 6/6/1997.
Subito dopo la cattura, suscitò scalpore il ritrovamento nel suo covo di una piccola cappella votiva e di numerosi testi sacri e filosofici: l'atteggiamento remissivo e vagamente mistico alimentarono le voci di un possibile pentimento ma il caso si sgonfiò dopo pochi giorni.
Giovanni Brusca
Nato a Palermo il 20 maggio del 1957, "u verru", vale a dire il maiale, seguì fin da giovane le orme paterne, intraprendendo la carriera mafiosa e diventando un killer feroce e responsabile di diverse decine di omicidi. Dopo alcuni anni di carcere, nel 1991 riprese in mano le redini della famiglia di San Giuseppe Jato, temporaneamente affidata a Balduccio Di Maggio, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. È stato un protagonista indiscusso dell'ultima stagione di sangue inaugurata da Cosa Nostra con l'omicidio di Lima. E' ormai tristemente noto come il boia di "Capaci", vale a dire l'uomo che azionò il telecomando che fece esplodere l'autostrada lungo la quale transitavano in auto il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Dopo l'arresto di Riina e Bagarella prese il comando dell'ala militare dei corleonesi, in accordo con Bernardo Provenzano. Fu arrestato il 20 maggio 1996 a Cannitello, in provincia di Agrigento, in compagnia del fratello Vincenzo.
Benedetto "Nitto" Santapaola
Benedetto "Nitto" Santapaola nacque il 4 giugno del 1938 in una famiglia di modeste condizioni sociali, residente nel degradato quartiere San Cristofaro di Catania. Da ragazzo studiò dai salesiani e frequentò l'oratorio, ma abbandonò presto la scuola e, attratto dai facili guadagni, realizzò le prime rapine. Venditore ambulante di scarpe e articoli da cucina prima, titolare di una concessionaria di auto poi, in realtà Santapaola, soprannominato "il cacciatore", fu uno dei capi mafia più potenti e sanguinari della Sicilia orientale.La sua fedina penale iniziò a riempirsi nel 1962 con una denuncia per furto e associazione per delinquere. Dopo essere stato diffidato dalla questura di Catania nel 1968 e inviato al soggiorno obbligato dopo due anni, nel 1975 fu invece denunciato per contrabbando di sigarette. Nel 1980 fu fermato durante le indagini sull'omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, ma l'accusa non fu provata e anche la successiva proposta di soggiorno obbligato non fu accolta. Del tutto indisturbato, Santapaola portò così a termine la scalata ai vertici di Cosa Nostra, eliminando prima Giuseppe Calderone, il capo mafia più influente di Catania (8 settembre 1978) e poi commissionando ai corleonesi la cosiddetta "strage della circonvallazione" a Palermo,
quando il rivale Alfio Ferlito fu ucciso insieme ai carabinieri che lo stavano scortando in carcere (16 giugno1982). Furono questi i due episodi più sanguinosi che contraddistinsero la feroce guerra per il predominio a Catania e nella Sicilia
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