venerdì 21 novembre 2008

Il rapporto tra mafia e politica

Il rapporto tra politica e mafia è certamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e della storia delle forze politiche e delle istituzioni del nostro Paese. Nonostante l'abbondante produzione di materiali sull'argomento, sotto forma di libri e servizi giornalistici di denuncia, di documenti politici, di relazioni di organi ufficiali, non possiamo dire che finora il tema sia stato adeguatamente affrontato in tutte le sue implicazioni. I concetti impiegati per designare i rapporti tra politica e mafia e viceversa sono spesso generici o inadeguati: si parla di contiguità e di coabitazione, mentre rimangono in secondo piano o restano irrisolti o neppure affrontati problemi di fondo che riguardano la definizione di mafia e la configurazione dei rapporti di dominio e subalternità così come si sono determinati nello scenario politico-istituzionale italiano. Nel tentativo di contribuire a chiarire questi temi di fondo propongo, per ragioni di ordine espositivo, un rovesciamento dei due termini. Prima affronteremo il tema dalla parte della mafia e dopo dalla parte della politica.
Dalla parte della mafia. La mafia come soggetto politico e la produzione mafiosa della politica Si è discusso se la mafia abbia una strategia politica o se intrecciando rapporti con soggetti dell'universo politico si limiti a stringere alleanze tattiche. Secondo la relazione su mafia e politica della Commissione antimafia, Cosa nostra, che rappresenta il gruppo più consistente della mafia siciliana, "ha una propria strategia politica. L'occupazione e il governo del territorio in concorrenza con le autorità legittime, il possesso di ingenti risorse finanziarie, la disponibilità di un esercito clandestino e ben armato, il programma di espansione illimitata, tutte queste caratteristiche ne fanno un'organizzazione che si muove secondo logiche di potere e di convenienza, senza regole che non siano quelle della propria tutela e del proprio sviluppo. La strategia politica di Cosa nostra non è mutuata da altri, ma imposta agli altri con la corruzione e la violenza" (Commissione antimafia 1993). Resta da vedere se questa strategia non venga praticata anche in forza di convergenze di interessi e di accordi stipulati senza bisogno di ricorrere alle armi e alle minacce. Per qualche studioso si tratterebbe solo di alleanze tattiche (Lupo 1993, p. 229). Per avere una visione più adeguata bisognerebbe in primo luogo interrogarsi sulla natura dell'associazionismo mafioso. Ad avviso di chi scrive, anche utilizzando la letteratura più avvertita, la mafia può considerarsi soggetto politico, in duplice senso: "1) in quanto associazione criminale la mafia è un gruppo politico, presentando tutte le caratteristiche individuate dalla sociologia classica per la definizione di tale tipo di gruppo; 2) essa concorre come gruppo criminale e con il blocco sociale di cui fa parte alla produzione della politica in senso complessivo, cioè determina o contribuisce a determinare le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse" (Santino 1994, pp. 12 s.). Per la definizione di gruppo politico possiamo rifarci alla classificazione di Max Weber che nel primo volume della sua Economia e società, dedicato alla Teoria delle categorie sociologiche, comincia con il definire il gruppo sociale: "Una relazione sociale limitata o chiusa verso l'esterno mediante regole deve essere chiamata gruppo sociale quando l'osservanza del suo ordinamento è garantita dall'atteggiamento di determinati uomini, propriamente disposti a realizzarlo - cioè di un capo e, eventualmente, di un apparato amministrativo, che in dati casi ha anche potere di rappresentanza". Un gruppo sociale è sempre un gruppo di potere quando esiste un apparato amministrativo e per potere "si deve intendere la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto". Segue la definizione di gruppo politico: "Un gruppo di potere deve essere chiamato gruppo politico nella misura in cui la sua sussistenza e la validità dei suoi ordinamenti entro un dato territorio con determinati limiti geografici vengono garantite continuativamente mediante l'impiego e la minaccia di una coercizione fisica da parte dell'apparato amministrativo". La riflessione viene perfezionata con la seguente definizione di Stato: "Per Stato si deve intendere un'impresa istituzionale di carattere politico nella quale - e nella misura in cui - l'apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell'attuazione degli ordinamenti" (Weber 1981, pp. 47 ss.). Come associazione criminale con caratteri specifici (si possono richiamare gli elementi indicati dall'art. 416 bis della legge n. 646 del 13 settembre 1982, o legge antimafia: forza di intimidazione del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti e per acquisire direttamente o indirettamente la gestione e il controllo di attività economiche, concessioni, appalti ecc. o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri) la mafia presenta i caratteri fondamentali dei gruppi politici: un ordinamento, cioè un insieme di norme, una dimensione territoriale, la coercizione fisica, un apparato amministrativo in grado di assicurare l'osservanza delle norme e mettere in atto la coercizione fisica. Per designare sinteticamente questa pluralità di funzioni ho adoperato l'espressione signoria territoriale, una forma totalitaria di controllo all'interno e all'esterno, che va dalle attività economiche alla vita personale e relazionale. La mafia concorre alla produzione della politica agendo all'interno del blocco sociale o sistema relazionale egemonizzato da soggetti illegali e legali (borghesia mafiosa), in vari modi: uso politico della violenza, formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, controllo sull'attività politico-amministrativa. L'uso politico della violenza si realizza attraverso l'ideazione e l'esecuzione dei cosiddetti delitti politico-mafiosi e delle stragi. I delitti politico-mafiosi mirano a colpire non solo uomini politici o membri della magistratura e delle forze dell'ordine ma anche altri impegnati a vario titolo contro la mafia e l'illegalità e obbediscono a esigenze complessive di salvaguardia degli interessi delle organizzazioni mafiose e di altri soggetti ad esse collegate, interrompendo processi orientati in senso sfavorevole o innescando e rafforzando dinamiche socio-politiche favorevoli al perseguimento di determinati interessi. Si tratta il più delle volte di atti di violenza mirata ma possono esserci anche atti di violenza diffusa, come nel caso delle stragi che hanno colpito indiscriminatamente militanti e partecipanti alle manifestazioni del movimento contadino. A innescare questa vera e propria politica della violenza possono concorrere vari soggetti (gruppi criminali, gruppi terroristici, logge massoniche, servizi segreti ecc.) in nome di una convergenza di interessi e con la mobilitazione di una pluralità di autori; ma la corresponsabilità di più soggetti, ipotizzabile nella ricostruzione delle dinamiche che portano all'evento criminoso, è difficilmente dimostrabile in sede giudiziaria, non solo per difficoltà oggettive ma soprattutto per effetto di operazioni di nascondimento e di depistaggio quasi sempre portate a buon fine. Non per caso gran parte delle stragi consumate nel nostro Paese, con o senza la partecipazione di soggetti mafiosi, è rimasta impunita. La formazione delle rappresentanze istituzionali può avvenire attraverso la selezione dei quadri, il ruolo nelle campagne elettorali, il controllo del voto o anche attraverso la partecipazione diretta di membri delle organizzazioni mafiose o di soggetti ad essa legati alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive. Il controllo sull'attività politico-amministrativa si realizza attraverso rapporti con gruppi politici e apparati burocratici, dagli enti locali alle istituzioni centrali, e dà vita a una tipologia variegata che va dallo scambio, limitato o permanente, all'identificazione-compenetrazione, all'affinità culturale e alla condivisione degli interessi. La produzione mafiosa della politica implica una visione della mafia che rifugge da stereotipi diffusi come quelli dell'antistato o del vuoto di Stato. Si è parlato di mafia come antistato soprattutto in relazione ai delitti che hanno colpito uomini delle istituzioni e il vuoto di Stato è un luogo comune che attraversa la storia della Sicilia e dell'intero Mezzogiorno, segnata dalla costituzione di una forma-Stato che ha istituzionalizzato i rapporti di forza esistenti. In realtà la mafia ha un doppio volto. Per un verso ha un suo ordinamento e un sua giustizia (l'omicidio per i mafiosi non è un reato ma una sanzione applicata a chi non si piega ai loro voleri o si contrappone ai loro interessi) e su questi terreni non riconosce il monopolio statale della forza, quindi è fuori e contro lo Stato. Per un altro verso, per le sue attività legate al denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica, la mafia è dentro e con lo Stato. A questa doppiezza della mafia corrisponde, come vedremo, una doppiezza dello Stato, nel senso che esso rinuncia parzialmente al monopolio della forza, legittimando la violenza mafiosa attraverso l'impunità, tutte le volte che viene operata una delega di fatto alla mafia di compiti repressivi. Abbiamo parlato di una variegata tipologia di rapporti ed espressioni come "contiguità" (impiegata, ad esempio, nella requisitoria del maxiprocesso: in Santino 1992, ma ampiamente diffusa) e "coabitazione" (impiegata nella Relazione su mafia e politica del 1993) colgono una parte di tali rapporti, mentre per altri è più adeguata l'espressione "compenetrazione organica" (impiegata sempre nella requisitoria del maxiprocesso). L'Ufficio Istruzione che ha preparato il maxiprocesso, nel commentare le affermazioni della requisitoria, riprendeva l'espressione "contiguità" ma a proposito degli omicidi politici ne sottolineava l'inadeguatezza: "Nella requisitoria del P.M. si fa riferimento alla "contiguità" di determinati ambienti imprenditoriali e politici con Cosa nostra. Ed indubbiamente questa contiguità sussiste anche se è stata scossa, ma non definitivamente superata, dai tanti tragici eventi che hanno posto in luce il vero volto della mafia. Ma qui si parla di omicidi politici, di omicidi cioè in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente "voltare pagina"" (in Santino 1992). La sentenza di primo grado riprendeva le varie espressioni impiegate per designare il rapporto tra mafia e politica e tracciava un profilo sintetico della natura istituzionale di Cosa nostra, che sarebbe insieme: contropotere, per la sua natura criminale; potere annidato nel contesto sociale, capace di adattarsi ai mutamenti delle condizioni storiche; ordinamento giuridico che ha in comune con la forma Stato i caratteri essenziali: un territorio, un codice, affiliati che vi si attengono e altri che vi si adattano; gruppo di pressione che programma e realizza piani di estensione geografica e di rafforzamento del ruolo a livello nazionale e internazionale (in Santino 1992,1994) Una rappresentazione che coglieva la complessità del fenomeno mafioso e l'articolazione dei ruoli che esso ha esercitato nei suoi rapporti con la politica e l'assetto istituzionale.
Dalla parte della politica. La criminalità del potere e la produzione politica della mafia Abbiamo già accennato al ruolo della Democrazia cristiana, per quasi mezzo secolo partito di maggioranza relativo e architrave del sistema di potere. Nella relazione di maggioranza che chiuse i lavori della Commissione parlamentare antimafia (1976) si dice che la mafia è un fenomeno di classi dirigenti (affermazione che valeva soprattutto per le origini), che la sua specificità è "costituita dall'incessante ricerca di un collegamento con i pubblici poteri", che la DC presentava un indice di personalizzazione (rapporto tra voti di lista e voti di preferenze) più elevato di altri partiti e che il voto di preferenza favoriva l'infiltrazione mafiosa e si puntava il dito sul ruolo di Vito Ciancimino, dirigente democristiano, assessore comunale e per qualche tempo sindaco di Palermo. La relazione di minoranza presentata dal PCI indicava nel gruppo dirigente democristiano siciliano, che avrebbe imbarcato forze liberali e monarchico-qualunquiste legate ai boss mafiosi, il referente politico di una mafia capace di adattarsi ai mutamenti del contesto (Commissione antimafia 1976). Successivamente nella riflessione su fenomeni come la loggia massonica P2, i comportamenti dei servizi segreti cosiddetti "deviati", il ricorso alle stragi per arrestare processi di rinnovamento del quadro politico che mettevano in forse l'assetto internazionale, si è utilizzato un concetto elaborato per l'analisi dello Stato nazista (Fraenkel 1983). Mi riferisco alla teoria del "doppio Stato", fondato su una duplice lealtà dei gruppi dirigenti, verso il proprio Paese e verso lo schieramento internazionale (De Felice 1989). Anche chi scrive ha parlato di una doppiezza dello Stato come schema teorico utilizzabile per analizzare fenomeni come la legittimazione della violenza mafiosa e l'uso illegale della violenza da parte di apparati istituzionali o di soggetti ad essi legati, senza però farne una sorta di dogma interpretativo multiuso (Santino 1994, 1997b) In sintesi violenza e illegalità sono state una risorsa a cui si è fatto ricorso quando la normale dialettica non riusciva a governare il conflitto sociale o a controllare le dinamiche politiche. Si può parlare di criminalità del potere, con riferimento a tutti quegli eventi che dimostrano che per salvaguardare un determinato assetto di potere, perpetuare l'egemonia di determinate forze politiche, garantire il rispetto dei limiti imposti dalla spartizione del mondo in grandi aree di influenza, non si è esitato ad ideare ed eseguire atti criminosi, come le stragi, o a tollerane il compimento, depistando o insabbiando le indagini per accertare le responsabilità. Con l'espressione produzione politica della mafia si possono intendere le varie forme con cui forze politiche e istituzioni "contribuiscono a sostenere e sviluppare la mafia, dall'assicurazione dell'impunità per i fatti delittuosi alle attività collegate con il funzionamento delle istituzioni stesse e con l'uso del denaro pubblico. Tali forme possono arrivare fino a configurare un'istituzionalizzazione formale o sostanziale della mafia (criminocrazia) e/o la mafiosizzazione delle istituzioni" (Santino 1994). Questo non significa che tutto è mafia, ma che si sono realizzate forme di privatizzazione-clandestinizzazione-criminalizzazione delle attività politiche, configurabili come una sorta di forma-mafia, che ha visto soggetti come i gruppi neofascisti, legati a uomini di potere, i servizi segreti, le logge massoniche in cui figuravano vertici delle istituzioni, mettere in atto eventi criminosi che niente avevano a vedere con l'uso legittimo del monopolio della forza. Per quanto riguarda più precisamente il rapporto con la mafia, la legittimazione della violenza con la garanzia dell'impunità ha comportato una demonopolizzazione, cioè una rinuncia al monopolio della forza, elemento costitutivo della moderna forma-Stato (Bobbio 1976). Lo Stato ha recuperato il monopolio della forza per tamponare un'escalation di violenza che tracimava oltre i limiti consentiti, come nel caso della strage di Ciaculli (1963), in cui caddero sette uomini delle forze dell'ordine, dei delitti e delle stragi che hanno colpito personaggi come Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino (sono questi i delitti che hanno scatenato rilevanti effetti boomerang). E questo recupero è stato effettuato in una logica più emergenziale che strategica. Questo è stato il limite di fondo delle politiche criminali del nostro Paese. Anche per quanto riguarda più propriamente il terreno politico, cioè delle competizioni elettorali e della selezione delle rappresentanze, non si andati al di là dell'elaborazione di fattispecie inadeguate e parziali, come quella che prevede lo scambio elettorale politico-mafioso, limitato alla compravendita di voti, attraverso lo scambio tra somme di denaro e la promessa di voti (legge 7 agosto 1992 n. 356, art. 11 ter). La formulazione iniziale era più ampia e più rispondente alla realtà, prevedendo l'acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti ecc., ma è stata ristretta tanto da ridurne, se non cancellarne, l'efficacia. La responsabilità politica, di cui parlava la relazione della Commissione antimafia del 1993, approvata in pieno clima di emergenza, che dovrebbe concretarsi in un giudizio di incompatibilità con l'esercizio di una funzione pubblica per le persone responsabili di fatti non necessariamente definibili come reati ma pur sempre gravi, è rimasta sulla carta e negli ultimi anni si è assistito a un fatto inedito nella storia dell'Italia repubblicana: la candidatura e l'elezione di personaggi sotto processo per mafia, accompagnate da attacchi di inusitata violenza alla magistratura, responsabile di perseguire uomini di potere, in nome dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Un'altra forma di legalizzazione dell'illegalità che si aggiunge alle leggi a tutela di interessi personali e a salvaguardia dell'impunità di personaggi che si sono dati alla politica per sfuggire ai loro problemi giudiziari e che un elettorato non molto dotato di senso civico premia con valanghe di voti, anche come effetto di un sistema maggioritario che cancella e mortifica le minoranze. In questo clima i processi ai politici e ai rappresentanti delle istituzioni incriminati per i loro legami con la mafia (da alcuni politici locali ad Andreotti, il cui processo si è concluso con un esito bifronte) hanno avuto risultati impari rispetto a quelli che riguardano l'ala militare, l'accertamento della verità sulle stragi segna il passo e l'intreccio tra il potere del crimine e la criminalità del potere vive una stagione di cui non si vede la conclusione.
Mafia e forze politiche La mafia non ha ideologia ma ha una spiccata e scaltrita cultura del potere. Nei rapporti con le forze politiche la mafia siciliana ha mostrato una grande capacità di elasticità e di adattamento al mutare del quadro politico e al succedersi dei detentori del potere. Così essa è stata, esclusivamente o prevalentemente, liberale, democristiana e ora è legata ai soggetti politici affermatisi negli ultimi anni. Significativo il comportamento dei mafiosi nelle fasi di transizione, quando varie forze politiche sono in corsa per il potere. Limitandoci al secondo dopoguerra, nei primi anni Quaranta del XX secolo, il ricorso al separatismo, a ridosso dei grandi proprietari terrieri, ebbe soprattutto il significato di un'operazione strumentale mirante ad ottenere un'autonomia regionale che salvaguardasse gli interessi e il potere degli strati dominanti. Alcuni capimafia, come Calogero Vizzini, costituivano insieme la sezione del Partito separatista e quella della Democrazia cristiana, puntavano contemporaneamente su due cavalli, attivandosi per assicurare l'affermazione di quello che si presentava più favorito per vincere la corsa. La vittoria del Blocco del popolo alle elezioni regionali del 20 aprile 1947 stimola l'accentuazione della violenza, già messa in atto per fermare l'avanzata del movimento contadino, e si avrà la strage di Portella del primo maggio, che in concorso con altre scelte maturate a livello nazionale e internazionale, avrà una immediata valenza strategica con l'espulsione delle sinistre dal governo nazionale e con il divieto al loro ingresso in quello regionale. La fase dei governi centristi vede la mafia solidamente attestata con il partito di maggioranza relativa e pronta a ricorrere ancora alla violenza, garantendosi il ruolo di forza armata e di baluardo contro il comunismo, fino alla sconfitta finale del movimento contadino (con una controriforma agraria che stimola gran parte del mondo contadino a scegliere la via dell'emigrazione) e all'assottigliamento della consistenza delle forze di opposizione, emarginate dall'assetto di potere costituito. In questa fase che va dagli anni '50 agli anni '60 la mafia si assicura un canale privilegiato di accesso al denaro pubblico, estendendo e radicando il suo sistema relazionale con i rapporti intessuti con professionisti, imprenditori, amministratori e politici, configurandosi come una forma di borghesia di Stato (Santino - La Fiura 1990, pp. 111 ss.). Il rapporto pattizio si incrina per il lievitare dell'accumulazione illegale e della richiesta di occasioni di investimento e di spazi di potere. I delitti che colpiscono uomini del partito di maggioranza (Michele Reina nel 1979, Piersanti Mattarella nel 1980) hanno un preciso significato: la mafia non tollera le aperture politiche verso l'opposizione e in particolare verso il Partito comunista e considera un intralcio ai suoi interessi le azioni moralizzatrici che toccano terreni scottanti come quello degli appalti di opere pubbliche. Il messaggio arriva a segno: le aperture vengono archiviate e al governo della regione vanno personaggi più affidabili (Santino 1989, pp. 287 ss.). Il patto viene definitivamente sciolto con l'uccisione di Salvo Lima (12 marzo 1992), a cui si rimprovera di non aver cancellato gli effetti del maxiprocesso che si è concluso con pesanti condanne per una serie sterminata di omicidi, interni ed esterni, che hanno insanguinato gli anni '80. Il delitto, che colpisce uno dei personaggi più emblematici del rapporto mafia-politica per decenni, è una sorta di lastra tombale su un intero periodo storico. La mafia ora è alla ricerca di nuovi interlocutori all'interno di un quadro politico profondamente mutato, in cui figurano forze politiche nate sulle ceneri di partiti storici, travolti dai processi per corruzione (la cosiddetta Tangentopoli). Nel 1989 è caduto il muro di Berlino, il socialismo reale è imploso e la mafia ha perduto il suo ruolo storico di baluardo contro il comunismo, in un contesto formalmente aperto ma in realtà sbarrato alle forze di sinistra (quella che ho chiamato "democrazia bloccata": Santino 1997b). L'ondata di stragi del 1992 e '93 è il frutto del delirio di onnipotenza criminale dei cosiddetti corleonesi o è suscitata anche da altri soggetti che mirano a condizionare le dinamiche in atto per determinare i nuovi assetti di potere? La risposta giudiziaria, che ha colpito capi e gregari di Cosa nostra, ha lasciato irrisolto questo interrogativo che rischia di aggiungere un altro capitolo al libro dei cosiddetti misteri italiani Quel che è certo è che mafiosi hanno capito che per stringere nuove alleanze debbono controllare la violenza, soprattutto quella rivolta verso l'alto, e per gli ultimi anni si parla di "mafia sommersa" o inabissata, capace di controllare capillarmente il territorio, di inserirsi nella spartizione del denaro pubblico destinato alle grandi opere, sorretta da una borghesia mafiosa diffusa, forte di legami con personaggi del nuovo scenario politico. Stando anche a inchieste giudiziarie in corso, le forze politiche a cui si rivolgono le maggiori attenzioni sono Forza Italia e l'Udc, che rappresenta nella realtà siciliana la linea di continuità con il sistema di potere democristiano.

Giovanni Falcone e il contrasto al crimine organizzato transnazionale

Giovanni Falcone e il contrasto al crimine organizzato transnazionale


In una vicenda – insieme personale e sociale – come quella segnata dal percorso personale di Giovanni Falcone, sono pochi i tratti che a distanza di 12 anni dal suo sacrificio non sono stati ricordati e approfonditi con attenzione. Fra le sue intuizioni più vive e vitali vi è però la consapevolezza della dimensione internazionale che la criminalità organizzata è andata progressivamente assumendo e che ne caratterizza sempre più i caratteri costitutivi e le forme di manifestazione. Pur sulla base di una esperienza che Falcone aveva sviluppato per anni in un contesto geografico specifico e culturalmente definito, egli maturò un antesignano convincimento in merito all'importanza di non trascurare i collegamenti internazionali della criminalità organizzata di tipo mafioso e della possibilità di rintracciare veri e propri caratteri comuni delle principali associazioni criminali che operano su scala internazionale.Di questo suo sguardo saldamente ancorato al locale, ma aperto al globale è lucida testimonianza una conferenza, tenuta presso il Bundeskriminalamt di Wiesbaden (RFT) nel novembre del 1990 e ripubblicata a chiusura simbolica del bel volume che raccoglie gli interventi pubblici del magistrato undici anni fa (edito dall'omonima Fondazione con il titolo Giovanni Falcone. Interventi e proposte: 1982-1992). In essa, Falcone segnalava che “l'apertura delle frontiere all'interno della Comunità Europea favorirà necessariamente l'espansione della mafia e della criminalità organizzata con i sistemi mafiosi”, pur precisando che in tale passaggio si sarebbero verificata una mutazione di alcuni caratteri del fenomeno. Sul piano proposito si concludeva che “la via decisiva che deve essere intrapresa” consiste nella distruzione del “potere finanziario della criminalità organizzata”: da qui l'espresso monito rivolto a “tutti i componenti della comunità internazionale” e relativo alla “necessità di un corrispondente adeguamento della legislazione internazionale e della realizzazione di una costante ed efficace collaborazione internazionale”.L'importanza di obiettivi simili, unitamente al valore esemplare del sacrificio di Falcone per il primato della legge, spiegano la scelta di onorarne la memoria compiuta dall'Unione Europea, dopo che il Trattato di Maastricht aveva assunto la cooperazione nel settore della Giustizia fra le proprie grandi direttrici di intervento. In particolare, sin dal Piano di azione contro la criminalità organizzata del 1997 si era previsto di sostenere finanziariamente studi, scambi, attività di formazione ed altre forme di cooperazione che coinvolgono persone responsabili a vario titolo nella lotta contro la criminalità organizzata. La scelta di intestare tale programma a Giovanni Falcone è stata di alto significato: in tale ambito a partire dal 1998 e per quattro anni la Commissione Europea ha cofinanziato progetti presentati almeno due stati membri su temi attinenti alla criminalità organizzata.In tale cornice un particolare significato ha assunto il Progetto comune europeo di contrasto alla criminalità organizzata, sviluppato fra il 1998 ed il 2001 dalla Città di Palermo - quale realtà storicamente segnata, tanto dalla presenza della criminalità mafiosa, quanto da una intensa e differenziata azione di contrasto alla stessa – in collaborazione con il Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht (Freiburg im Breisgau), e istituzioni giudiziarie, scientifiche e amministrative italiane, tedesche e spagnole (*). In particolare, il Progetto comune europeo ha adottato un approccio comparato, quanto agli ordinamenti interessati, e integrato, quanto alle figure professionali coinvolte per approfondire otto ambiti tematici:
l'impegno europeo nel contrasto alla criminalità organizzata, con particolare riferimento alle basi normative per l'armonizzazione dei sistemi penali;
le manifestazioni della criminalità organizzata nei tre Stati-membri considerati: analisi sociologica-criminologica;
l'associazione criminale come incriminazione specifica contro il crimine organizzato: rilevanza normativa, caratteristiche strutturali, campi di attività, forme di partecipazione;
le infiltrazioni criminali nella politica, nelle professioni e nella società: fenomenologia e strategie di contrasto;
i proventi illeciti ed il loro contrasto: riciclaggio, indagini patrimoniali e confisca di beni illeciti;
i collaboratori di giustizia e la legislazione premiale;
gli strumenti processuali di contrasto alla criminalità organizzata;
la reazione della società civile e la prevenzione degli enti locali.
Su tale base, si è proceduto a definire un nucleo ristretto di proposte di norme minime da adottare a livello europeo per un contrasto più giusto ed efficace alla criminalità organizzata. In particolare, le proposte concernono:
la partecipazione ad una organizzazione criminale come modello di incriminazione europea;
un modello di confisca “allargata” nell'ambito della criminalità organizzata;
una disciplina europea dell'impiego di mezzi tecnici per l'intercettazione di comunicazioni private;
norme europee a favore dei collaboratori di giustizia.
I risultati dalla ricerca sono stati pubblicati dalla casa editrice del Max Plance Institut di Freiburg in tre volumi in più lingue, per consentire una maggiore diffusione internazionale del lavoro. Essi sono stati oggetto di dibattiti internazionali e presentati al Commissario Europeo per la Giustizia Antonio Vitorino. Il volume in italiano – con il titolo Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale, distribuito in Italia dalla rete di una primaria casa editrice giuridica – ha vinto nel 2002 il “Premio internazionale Falcone-Borsellino” dell'Istituto giuridico per la ricerca comparata. Un riconoscimento che richiama quell'intuizione di Falcone relativa al carattere internazionale della criminalità organizzata contemporanea e che ormai tutte le istituzioni impegnate nell'azione di contrasto al fenomeno non possono più trascurare.

Mafia: una guida bibliografica ragionata

Mafia: una guida bibliografica ragionata


Di che cosa ci stiamo occupando Può sembrare paradossale, ma una ricerca sulla mafia deve cominciare dalla focalizzazione precisa del tema: in questo caso, come in pochi altri, infatti, uno stesso termine è adoperato in significati disparati, talora contraddittori. La parola "mafia" ha insieme indicato: un comportamento e un modo di essere, cioè una mentalità e uno stato d'animo, e un dato di fatto, cioè l'associazione criminale; l'espressione del "senso dell'onore" e dell'"ipertrofia dell'io" di determinate popolazioni e la manifestazione della loro inferiorità razziale; un fenomeno locale e residuale e la "piovra" universale; l'effetto e la causa del sottosviluppo etc. etc. È evidente che l'indeterminazione pregiudica la riuscita dell'indagine, per cui si pone preliminarmente l'esigenza di individuare un'ipotesi definitoria. In un volume che raccoglie gli atti di una "giornata di bilancio e di riflessione", svoltasi l'8 maggio 1988 nel decimo anniversario dell'assassinio del militante Giuseppe Impastato, Umberto Santino, direttore del primo centro di documentazione e di studi sulla mafia sorto in Italia, propone la seguente definizione del fenomeno mafioso: Per quanto riguarda lo sviluppo storico del fenomeno, esso viene visto come un intreccio di continuità e trasformazione, qualcosa di più complesso delle classificazioni correnti, imperniate su nozioni approssimative come "mafia vecchia" e "mafia nuova". Santino individua quattro fasi: La mafia negli anni '60-'80 Sarebbe troppo impegnativo citare le fonti per una ricerca sulla mafia degli anni '60-'80, che non dovrebbe prescindere dai materiali pubblicati dalla Commissione parlamentari antimafia (1963-1976), voluminosi e difficilmente reperibili. Per gli anni più recenti ricordiamo solo, per l'accessibilità anche a docenti e studenti, il volume a cura di C. Staiano, Mafia. L'atto d'accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma, 1986, che pubblica stralci dell'ordinanza-sentenza istruttoria del primo maxi-processo di Palermo. Immediatamente fruibili, e coinvolgenti anche dal punto di vista psicologico, alcune "storie di vita" riguardanti personaggi femminili in rotta con il mondo mafioso e un ambiente popolare impregnato di mafiosità da cui provengono: F. Bartolotta Impastato, La mafia in casa mia, La Luna, Palermo, 1986; A. Puglisi, Sole contro la mafia, La Luna, Palermo, 1990. Nel primo testo viene intervistata la madre di Impastato, il militante siciliano che - avendo rinnegato la matrice mafiosa familiare - si dedica a iniziative politiche e culturali contro la mafia, finendo trucidato con una bomba ad opera di "notissimi ignoti". Nel secondo testo sono intervistate Michela Buscemi e Pietra Lo Verso, legate a vittime di violenza mafiosa, che - rompendo una secolare tradizione di omertà - si sono costituite parti civili in processi contro la mafia. Un'importante testimonianza è il volume di Nando Dalla Chiesa, Delitto imperfetto, Mondadori, Milano, 1984. Se passiamo dalle "fonti" alle interpretazioni critiche, troviamo molto materiale a livello divulgativo, ma molto poco a livello di ricerca empirica e di sintesi teorica. Per un orientamento nel vasto mondo della produzione giornalistica un'utile bussola è il volume G. Priulla (a cura di), Mafia e informazione, Liviana, Padova, 1987. Le poche ricerche che propongono modelli complessivi d'interpretazione teorica della mafia contemporanea sono quelle di F. Ferrarotti, P. Arlacchi, R. Catanzaro e U. Santino. Franco Ferrarotti, in Rapporto sulla mafia: da costume locale a problema dello sviluppo nazionale, Liguori, Napoli, 1978, pubblica i materiali di una ricerca commissionatagli dalla Commissione parlamentare antimafia. La mafia viene considerata come "fenomeno globale", nel senso che essa Il volume propone una bibliografia critica essenziale e contiene i risultati di una ricerca condotta, attraverso la somministrazione di un questionario, in città e comuni della Sicilia "nell'intento di mettere in luce la cultura delle popolazioni che vivono nelle zone mafiose, intesa come il costume e la mentalità media prevalente" (p. 141), e che ha riguardato anche l'evasione scolastica e l'atteggiamento delle famiglie verso l'istruzione. Pino Arlacchi, in La mafia imprenditrice. L'etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, il Mulino, Bologna, 1983, introduce una categoria interpretativa basata sull'impresa mafiosa, e sui suoi vantaggi economico-finanziari. La prima parte del volume .Nella seconda parte del volume si fa una rapida descrizione degli effetti della "grande trasformazione" post-bellica della società italiana e del Mezzogiorno sul potere e sul comportamento mafioso tradizionali, mentre la terza parte "è dedicata ad un tipo ideale della mafia e del mafioso dei nostri tempi". Negli anni '70 sarebbe nata la "mafia imprenditrice", la quale godrebbe di un "profitto monopolistico", frutto di una "innovazione" consistente nel "trasferimento del metodo mafioso nell'organizzazione aziendale del lavoro e nella conduzione degli affari esterni all'impresa". Secondo l'autore, Tuttavia, in un testo successivo, la grande criminalità meridionale, che da parassitaria sarebbe diventata produttiva, viene presentata come "uno degli ostacoli più importanti e più trascurati dello sviluppo economico italiano" (I costi economici della grande criminalità in AA.VV., L'impresa mafiosa entra nel mercato, F. Angeli, Milano, 1985, p. 29). Raimondo Catanzaro in Il delitto come impresa, Liviana, Padova 1988, Rizzoli, Milano, 1989, ha proposto un'interpretazione della mafia come frutto di un processo di "ibridazione sociale": Particolarmente significative le pagine dedicate al concetto di onore inteso come "concentrato di ricchezza, potere, prestigio e violenza" (p. 65); le considerazioni sulla violenza come "strumento di regolazione dell'economia" (pp. 71 e ss.) e le riflessioni sugli sviluppi del fenomeno mafioso negli ultimi anni, sia per ciò che riguarda le attività imprenditoriali sia per gli effetti di inquinamento del sistema politico. L'ipotesi di definizione della mafia come "borghesia mafiosa", concetto più ampio di quello di mafia come mera associazione criminale, elaborata da Umberto Santino, è stata verificata all'interno di ricerche empiriche pubblicate nei volumi: G. Chinnici - U. Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, F. Angeli, Milano, 1989 e U. Santino - G. La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano, 1990. Nel primo l'omicidio mafioso viene considerato come "omicidio-progetto", cioè come strumento per la risoluzione della concorrenza interna e della "gara egemonica" con soggetti esterni, che si inquadra in un programma complessivo delle organizzazioni criminose, con l'abbattimento degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del piano di arricchimento e di dominio. Nel secondo volume si formula l'ipotesi della "economia polimorfa" e del "mercato multidimensionale", in cui economia legale, sommersa e illegale presentano tipologie di rapporti (compenetrazione, convivenza, conflitto) ricavate dalle risultanze dell'indagine, condotta sugli accertamenti patrimoniali in attuazione della legge antimafia. Da tali accertamenti risulta che, tolti due grandi gruppi imprenditoriali, individuati in Lombardia e in Sicilia, le altre realtà imprenditoriali sottoposte a sequestro e confisca hanno principalmente funzione di copertura e di riciclaggio del capitale accumulato illecitamente, per cui sarebbe confermata l'ipotesi di lettura della mafia attuale soprattutto come "mafia finanziaria". I libri sinora citati mirano, essenzialmente, a decifrare il fenomeno "mafia" da un punto di vista storico, sociologico, economico e politico. Sarebbe interessante, almeno per degli educatori, avere a disposizione anche del materiale per elaborare una "pedagogia" dell'antimafia: ma, purtroppo, su questo versante, siamo ancora a contributi sporadici sotto forma di articoli. D'altra parte è ovvio che, se non si vuole cedere agli slogans, un'azione pedagogica efficace ha senso solo se inserita in un progetto culturale, etico, sociale e politico tendente a fare delle popolazioni meridionali i protagonisti del proprio riscatto. Con limiti ed ambiguità, la chiesa cattolica è tra le pochissime agenzie educative che ha cercato di offrire elementi in questo senso: per farsi un'idea di tale impegno può consultarsi il recente volume di A. Chillura, Coscienza di chiesa e fenomeno mafia, Augustinus, Palermo, 1990, che raccoglie gli interventi delle chiese siciliane, sia a livello di vertici che di base. Alcuni degli esperimenti più interessanti nell'elaborazione di strategie pedagogiche alternative sono il frutto della convergenza di soggettività e culture diverse, come è testimoniato, per esempio, nei recenti volumi di A. Cavadi, Fare teologia a Palermo. Intervista a don Cosimo Scordato sulla "teologia del risanamento" e sull'esperienza del Centro sociale "San Francesco Saverio" all'Albergheria, Augustinus, Palermo, 1990 e di Cosimo Scordato, Uscire dal fatalismo. Per una pastorale del risanamento, Paoline, Milano, 1991. Anche sotto l'impulso della Legge 51/80 della Regione siciliana, non sono mancati i tentativi di approntare degli strumenti didattici attraverso cui tradurre per la pratica quotidiana delle scuole alcune informazioni essenziali ed alcuni criteri di orientamento valutativo. Purtroppo si tratta, quasi sempre, di materiali da apprezzare più per le intenzioni lodevoli che per il valore intrinseco. Un contributo pionieristico, difficilmente reperibile, è la raccolta di materiali curata dal CIDI, Mafia, camorra, 'ndrangheta, delinquenza organizzata: anzitutto conoscere, Ediesse, Roma, 1984. Sul lavoro nelle scuole siciliane cfr. G. Cipolla, Tradizione e innovazione nelle esperienze educative antimafia in AA.VV., L'antimafia difficile, cit., pp. 128-139. Probabilmente, per un approccio "didattico" rimangono insostituibili alcune opere letterarie con felici intuizioni sociologiche, quali Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia (Einaudi, Torino, 1961, successivamente riedito), in cui è colto lucidamente il passaggio dalla mafia agraria alla mafia contemporanea, con la doverosa avvertenza che proliferano, in questo ambito, anche romanzi apologetici di una fantomatica mafia "tradizionale", come Il padrino di M. Puzo (Mondadori, Milano, 1978). Particolarmente significativo il lavoro giornalistico e letterario di Giuseppe Fava, fondatore della rivista "I Siciliani", assassinato dalla mafia nel 1984. Fra i suoi scritti: Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975; I siciliani, Cappelli, Bologna, 1980. In ordine ad una pedagogia e ad una didattica anti-mafia, non si può non tener conto di alcune ricerche di psicologia sociale. Segnaliamo: AA. VV. (a cura di A. M. Di Vita), Alle radici di un'immagine della mafia, F. Angeli, Milano, 1986, in cui sono pubblicati i materiali di una ricerca della Facoltà di Magistero di Palermo, ed AA. VV., L'immaginario mafioso. La rappresentazione sociale della mafia, Dedalo, Bari, 1986, indagine dell'Istituto di psicologia dell'Università di Palermo diretto da Gigliola Lo Cascio. Un interessante tentativo, di fare il punto sulla ricerca attuale e di aprire nuove prospettive, nel volume G. Casarrubea - P. Blandano, L'educazione mafiosa. Strutture sociali e processi di identità, Sellerio, Palermo, 1991.
Raccontare l'antimafia. Sulle lotte contadine, dai Fasci siciliani al secondo dopoguerra e sulle mobilitazioni e le iniziative degli ultimi anni si veda Umberto Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile, Editori Riuniti, Roma, 2000. Non tradotti in italiano: Alison Jamieson, The Antimafia, Italy's Fight against Organized Crime, Macmillan Press, London, 2000; Jane Schneider and Peter Schneider, Reversibile Destiny. Mafia, Antimafia and the Struggle for Palermo, University of California Press, Berkley and Los Angeles, 2003.

La mafia in Puglia

Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità

Dal 1994, anno della sua costituzione, ad oggi l'Ufficio Ambiente e Legalità ha svolto una continua attività di analisi, denuncia e informazione sulle illegalità ambientali avvenute in Italia, con particolare attenzione al fenomeno dell'Ecomafia. Il termine, coniato da Legambiente ed entrato recentemente nel vocabolario Zingarelli, indica, com'è noto, quei settori della criminalità organizzata che hanno scelto il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l'abusivismo edilizio e le attività di escavazione come nuovo grande business. Il fenomeno, oggetto di molti dossier elaborati dall'Ufficio, viene affrontato dal 1997 in modo sistematico nell'annuale "Rapporto Ecomafia".
Nei Centri di Azione Giuridica prestano la loro opera avvocati, magistrati e giuristi impegnati in difesa del "popolo inquinato". Protagonisti di grandi battaglie giudiziarie contro l'inquinamento e le aggressioni all'ambiente, i Centri svolgono attività di ricerca e proposta di nuove normative e sono a disposizione per fornire informazioni ai cittadini in lotta per un ambiente più sano e pulito.
Partendo dalle esperienze accumulate in questi anni dalle due strutture di Legambiente, è nata l'idea dell'Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità: una struttura di lavoro e una "rete" che si mette al servizio dei cittadini e dei professionisti del settore con un'aggiornata banca dati delle sentenze in materia ambientale, la principale normativa in campo ambientale con le novità legislative e i commenti, la possibilità di trasmettere segnalazioni di fenomeni di illegalità ambientale e così via.
Contromafie per libertà, cittadinanza, legalità, giustizia, solidarietà
CONTRO la mafia, contro tutte le mafie, contro la corruzione politica e gli intrecci clientelari che alimentano gli affari delle organizzazioni criminali e il malcostume, PER costruire, invece, percorsi di libertà, cittadinanza, legalità, giustizia, solidarietà che, a partire dal valore fondamentale della dignità di ogni essere umano, siano il più valido antidoto al proliferare della violenza e della sopraffazione mafiosa. Il messaggio degli Stati generali è duplice, inevitabilmente negativo (CONTRO) ma soprattutto positivo (PER): per mostrare quanto è stato realizzato sul versante civile e istituzionale nel combattere le mafie e le loro protezioni e, nel contempo, per elaborare e mettere a disposizione di tutti una serie di proposte che, a partire dalle riflessioni sui sei grandi temi di riferimento (libertà, cittadinanza, informazione, legalità, giustizia, solidarietà), possano costituire occasione di lavoro per i diversi soggetti, istituzionali e non, chiamati a partecipare. Ciascuna delle sei aree tematiche, è suddivisa in gruppi di lavoro, dai quali dovranno emergere le idee e le proposte per costruire i documenti finali. Legambiente curerà in particolare il gruppo di lavoro dedicato alle ecomafie all’interno dell’area “Per un’economia di solidarietà”.
Sporcarsi le mani per fare il bene comune
In Puglia dal 17 al 27 luglio 8 studenti delle scuole in lingua italiana hanno partecipato ai campi di volontariato organizzati da”. Nell’ambito del progetto Libera Terra, che realizza agricoltura biologica sui terreni confiscati alle mafie, ogni estate, molti ragazzi partecipano ai campi di volontariato. Quest’anno anche alcuni studenti delle superiori di Bolzano (geometri, classico, ragioneria) coordinati dalla referente della Sovrintendente per la consulta si sono mossi alla volta di Mesagne in Puglia per vivere un’esperienza di vacanza diversa. L’obbiettivo dell’esperienza è diffondere una cultura fondata sulla legalità e sul senso civico, che possa efficacemente contrapporsi alla cultura del privilegio e del riscatto che contraddistingue i fenomeni mafiosi nel nostro Paese. Dove la mafia, in Puglia la
Il vino dell’antimafia a Palermo.
Sacra Corona Unita, ha spadroneggiato è possibile ricostruire una realtà sociale ed economica fondata sulla legalità e sul rispetto della persona umana e dell’ambiente. Sui terreni confiscati e dati in gestione a cooperative sociali a Mesagne si è formata la cooperativa “Terre di Puglia - Libera Terra” formata da un gruppo di giovani del luogo che hanno iniziato a coltivare pomodori, grano e vigneti. Il raccolto è destinato poi alla produzione di tarallini, friselline, conserve, confetture e vino con il marchio Libera Terra. I prodotti nel loro cammino, dal campo alla tavola, seguono la via della legalità passando da aziende che nella lavorazione garantiscono un percorso all’insegna del rispetto della legge. Oltre ai soci, nelle cooperative lavorano operai in “regola” ed altri volontari che come noi intendono vivere un’esperienza particolare di solidarietà per approfondire realtà diverse dalle proprie. Lavorare stanca ma rende felici, sereni, in pace con se stessi. Questo abbiamo portato a casa per il nostro spirito, difficile da far capire a chi crede nell’estate come momento del riposo, dello svago, dell’incontro e del far niente. Anche noi ci siamo riposati, divertiti, abbiamo incontrato persone ma abbiamo anche dato una mano con il nostro lavoro a portare avanti la voglia di riscatto che è tanto cara a coloro che decidono di mettersi in gioco perché le cose possano cambiare, a vantaggio di una terra che amano e che merita di essere amata. Le realtà sono diverse sia di territorio che di esperienze umane. Ogni incontro lascia il segno: molte sono le persone che nel nostro soggiorno in Puglia, sia sui campi che in paese, abbiamo incontrato, ci siamo scambiati confidenze, ci siamo ascoltati, ci siamo conosciuti ci siamo lasciati con tanta voglia di ricominciare, di rivederci, di risentirci. Le giornate iniziavano presto, alle 5 già sui campi a raccogliere pomodori, lavoro con “5 raccoglitrici” fino alle 11.30, lavoro, lavoro sodo, per le nostre schiene e mani poco abituate, ma volonterose di imparare velocemente e rendersi utili. Ognuno ha fatto in proporzione alle proprie capacità, chi raccoglieva pomodori, chi trasportava casse dal campo al trattore, chi caricava le casse sul trattore chi, poi, le scaricava nell’azienda che si occupava della lavorazione. I nostri pomodori, li sentiamo un po’ anche nostri, sono stati essiccati al sole e poi messi sott’olio, il grano biologico, che abbiamo in parte insaccato, è stato portato al mulino per essere macinato e produrre farina per i taralli. Nei vigneti c’è chi ha fatto la guardia ad un generatore perché non venisse “rubato”, ottima opportunità di riposo per due dei nostri particolarmente stanchi non solo per il lavoro ma anche per le ore piccole passate a chiacchiere o in giro per il paese.Particolare: la cucina era frutto della nostra fantasia e della nostra buona volontà, nessuno è dimagrito o si è lamentato.Ora siamo a casa, nella nostra realtà, vogliamo dare testimonianza di come si possa passare una vacanza diversa impegnandosi nel sociale, dando un contributo ad iniziative che vogliono con tutte le loro forze far cambiare le cose, far cambiare il paese. Il nostro impegno deve essere la diffusione di una mentalità della legalità, della solidarietà, della testimonianza con la nostra presenza che siamo in tanti anche al Nord dell’Italia che crediamo nella possibilità che le cose possano cambiare con l’impegno, con la partecipazione attiva in prima persona. Per quello che noi sappiamo nella nostra provincia è la prima volta che un gruppo di studenti ha vissuto un esperienza come questa. Un particolare ringraziamento va alla Fondazione Cassa di Risparmio che venuta alla conoscenza del progetto lo ha sostenuto con il suo contributo.
Sacra Corona Unita
E' stata battezzata la quarta mafia e, secondo alcuni dati resi noti dall'Osservatorio sui fenomeni criminali dell'Eurispes, conta 47 clan e 1561 affiliati. È un'organizzazione minore rispetto alle altre mafie, per presenza sul territorio e per giro d'affari. Quasi tutti i suoi capi conosciuti sono stati arrestati.Fu Raffaele Cutolo ad allungarsi per primo sulla Puglia i tentacoli della Nuova Camorra Organizzata.
Nacque nel 1981 quando il boss napoletano affida a Pino Iannelli e Alessandro Fusco l'incarico di dare vita ad una organizzazione chiamata Nuova Camorra Pugliese. Poco più tardi arriva lo sganciamento dalla camorra. Prendono corpo così le prime organizzazioni mafiose pugliesi : la Sacra Corona Unita nel Salento e La Rosa a Bari. La Sacra Corona Unita viene fondata da Giuseppe Rogoli nel carcere di Lecce la notte di Natale del 1983. Rogoli, di Mesagne, condannato in primo grado all'ergastolo per l'omicidio del titolare di una tabaccheria di Giovinazzo, in provincia di Bari, era stato iniziato alla 'ndrangheta nel carcere di Porto Azzurro da un esponente di primo piano della mafia calabrese, Umberto Bellocco, di Rosarno.


Antonino Caponnetto
Si trasferì da giovanissimo dalla natìa Sicilia a Firenze, ove si laureò in giurisprudenza. Entrato in magistratura nel 1954, la sua carriera ebbe una svolta nel 1983 quando ottenne il trasferimento a Palermo, successivamente all'uccisione di Rocco Chinnici capo dell'Ufficio istruzione di Palermo. Seguendo la strategia studiata da Giancarlo Caselli per la lotta al terrorismo, realizzò un gruppo di magistrati con il compito di occuparsi a tempo pieno solo della lotta alla mafia. Il pool, che vide la partecipazione di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, istruì il primo grande processo contro la mafia e si servì delle dichiarazione di pentiti come Tommaso Buscetta.
Concluse la sua carriera nel 1990 e dovette assistere alla morte prima di Falcone e poco dopo di Borsellino, assassinati dalla mafia (straziante il suo commento alle telecamere subito dopo la Strage di via d'Amelio: «È finito tutto!»). Da allora, finché poté, si dedicò in un'opera di testimonianza contro l'illegalità. Nel 1993 fu candidato per la Rete all'elezioni amministrative di Palermo, divenendo così presidente del consiglio comunale.
Cittadino onorario di Palermo e Catania, presidente del consiglio comunale del capoluogo siciliano per un breve periodo, per tre volte è stato candidato a senatore a vita con raccolte di firme. A fargli gli auguri per i suoi 80 anni, fu anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Gli è stata recentemente intitolata la nuova mensa del Polo delle Scienze Sociali dell'Università degli Studi di Firenze.

Cosa Nostra - Falcone e Borsellino



Cosa nostra
Con l'espressione Cosa nostra si è soliti indicare un'organizzazione criminale di stampo mafioso presente in Sicilia dagli inizi del XIX secolo, e trasformatasi nella seconda metà del '900 in una organizzazione internazionale.
In Sicilia il fenomeno è stato pesantemente arginato negli ultimi anni che sebbene abbia portato un radicale ridimensionamento di Cosanostra ne ha determinato un'evoluzione frammentaria e molto più indebolita che prende oggi il termine di Stidda,prevalente nelle provincie di Agrigento,Enna e Caltanissetta in primo luogo. Gli interventi dello Stato,che spesso però ha trascurato,anche volutamente il problema hanno contribuito in maniera determinante al ridimensionamento del fenomeno. In questo senso capitolo a parte fanno i giudici-magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,i quali lasciati soli dello Stato e rimettendoci la vita hanno distrutto il cuore di Cosanostra,che sembra sventrata con il recente arresto di Bernardo Provenzano ad opera della Procura Antimafia di Palermo ma non debellata visto che sta subendo l'evoluzione in Stidda(molto più debole e molto meno pericolosa ma pursempre di stampo mafioso). Negli anni '90 la Sicilia come Campania e Puglia venne militarizzata allo scopo di mobilitare la società civile,che ebbe i suoi risultati riscontrabili molto di più oggi avviando un processo di evoluzione ancora in atto e ad oggi in pieno e felice sviluppo nella nuova generazione.
La sua origine è tradizionalmente messa in relazione all'antico fenomeno del brigantaggio, tuttavia è doveroso precisare che tale asserzione è poco condivisa; buona parte degli studiosi ritiene di retrodatare il fenomeno al XVI secolo, quando in varie parti d'Italia si erano formate congregazioni paracriminali sul tipo di quella citata dal Alessandro Manzoni, (I bravi e Don Rodrigo), nel suo capolavoro "I promessi sposi".
È costituita da un sistema di gruppi, chiamati famiglie, organizzati al loro interno sulla base di un rigido sistema gerarchico composto da gregari di diverso livello detti picciotti e da un capo detto padrino. Con il termine, "Cosa nostra", oggi ci si riferisce esclusivamente alla mafia siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d'America), per distinguerla dalle altre, internazionali, genericamente indicate col termine di "mafie".
Le origini
Cosa nostra" nacque nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei fattori e dei gabellotti che gestivano quotidianamente i terreni della nobiltà siciliana e i braccianti che vi lavoravano. Era gente violenta, che faceva da intermediario fra gli ultimi proprietari feudali e gli ultimi servi della gleba d'Europa e per meglio esercitare il loro mestiere si circondavano di scagnozzi prezzolati. Questi gruppi divennero rapidamente permanenti assumendo il nome di "sette, confraternite, cosche": il primo documento storico in cui viene nominata una cosca mafiosa è del 1837, dove il procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, riferisce ai suoi superiori a Napoli dell'attività di strane sette dedite ad imprese criminose che corrompevano anche impiegati pubblici. Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaetano Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni del capoluogo siciliano. È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, che il termine mafia venne diffuso su tutto il territorio nazionale. Fin da allora la mafia si caratterizzava come una struttura al di fuori dello stato, ma strettamente legata ad esso.
Con l'unità d'Italia nella Sicilia della seconda metà del XIX secolo si accelerò il processo, già iniziato in precedenza, di smantellamento della struttura feudale ancora esistente nelle zone rurali e nelle campagne. Questo avvenne quando l'economia siciliana fu integrata in quella del resto del paese. Il governo piemontese inoltre si sostituì alla struttura sociale siciliana, fino a quel momento rigidamente divisa, senza però riuscire ad instaurare con essa un rapporto positivo. Se a questo si somma la necessità dei grossi latifondisti dell'interno dell'isola di affidarsi all'aiuto di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo e totale sulle proprietà e che se i possidenti non sentivano tale necessità, Cosa nostra si prodigava nel rendergliela evidente, ecco che si spiega come mai la Mafia fu involontariamente favorita dal Risorgimento italiano. C'è altresì da considerare come lo Stato Piemontese, non riuscendosi a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell'isola (la cui organizzazione sociale era fin troppo differente da quella settentrionale), cominciò a fare affidamento delle cosche mafiose, le quali, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale.
Fu nel 1893, con il celebre delitto Notarbartolo, che l'esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia.
Struttura
Le conoscenze sull'organizzazione interna della mafia siciliana si debbono prevalentemente all'opera di Giovanni Falcone, primo magistrato che riuscì a rompere il muro di omertà su questo tema avvalendosi dell'ausilio di "pentiti, grazie alle nuove leggi in materia di pentitismo promulgate all'inizio degli anni '80. Assieme al collega Paolo Borsellino ha donato ai suoi successori una solida base di conoscenze che hanno aiutato a combattere la mafia efficacemente. L'organizzazione di Cosa nostra è formata da mafiosi che si definiscono uomini d'onore. La sua struttura è verticistica e piramidale, essa dipende dalla Cupola mafiosa o Commissione. Alla base dell'organizzazione ci sono le famiglie in cui tutti gli affiliati si conoscono fra loro, governate da un capo-famiglia, di nomina elettiva; altre figure importanti sono il sottocapo e i consiglieri, in numero non superiore a 3. Le famiglie si dividono in gruppi di 10 uomini detti decine comandate da un capo-decina. Tre famiglie dal territorio contiguo formano un mandamento; il capo-mandamento è un loro rappresentante, e, almeno fino a un certo periodo, non fu membro di una delle famiglie per evitare di favorire la sua stessa famiglia di appartenenza. I vari capi-mandamento si riuniscono in una commissione o cupola provinciale, di cui la più importante è quella di Palermo. Questa commissione provinciale è presieduta da un capo-mandamento che, per sottolineare il suo ruolo di "primus inter pares", si chiamava in origine segretario, ma sembra che ora abbia preso il titolo di capo. Per lungo tempo non c'è stato bisogno di un organismo superiore alla commissione provinciale poiché quasi tutte le famiglie risiedevano in quella di Palermo. Quando però l'organizzazione ha messo radici in tutta l'isola si è dovuta creare una cupola regionale detta interprovinciale, alla quale partecipavano tutti i rappresentati delle varie province e dove il titolo di capo era tenuto dal capo della cupola provinciale più potente e quindi di Palermo.
Negli ultimi anni, dopo la riorganizzazione seguita ai colpi inferti dalle forze dell'ordine, la struttura che era già molto semplice si è fatta ancora meno verticistica e meno localizzata: si ipotizza (non ci sono dati certi) che le nuove famiglie di Cosa nostra siano costituite per funzione piuttosto che per territorio.
La strategia criminosa di Cosa nostra è duplice: da una parte cerca di garantirsi il controllo del territorio in cui risiede, attraverso una imposizione fiscale alle attività commerciali e industriali della zona (il pizzo o racket) e la feroce e immediata punizione di chiunque osi contravvenire alle disposizioni che essa dirama, mentre dall'altra cerca di corrompere il potere politico ed i funzionari dello Stato attraverso l'offerta di denaro e voti, per ottenere l'impunità e una sponda all'interno del sistema, da poter usare a proprio vantaggio. Questo connubio di impunità e controllo garantisce ai mafiosi la possibilità di affrontare qualunque nemico, sia esso malavitoso o istituzionale, da una posizione di forza, sicuri di avere in ogni caso un rifugio protetto e degli amici a cui ricorrere: a volte sfruttando perfino le forze dello Stato stesso.
Attualmente Cosa nostra ha 186 cosche formate da circa 5400 affiliati e 65.000 fiancheggiatori.


Struttura della mafia













Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Un binomio inscindibile
Falcone e Borsellino: due nomi, un solo luogo del nostro immaginario collettivo, a testimonianza di una tragedia che ha colpito tutti, un intero popolo. E' difficile scindere questo binomio, impossibile parlare di Giovanni, senza immediatamente ricordare Paolo. Nella nostra mente si è insediato un automatismo che sarà difficile rimuovere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano uniti in vita, legati da un “mestiere” che per loro era missione: liberare la società civile dall'oppressione di una “mala pianta”- la mafia - che nasce, vive e prospera nello stesso umore nutritivo prodotto dalla Sicilia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ora inscindibili nella nostra memoria. Come accade per quanti diventano simbolo contro la loro stessa volontà, eroi soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee, per aver rifiutato la via facile dell'accomodamento e del quieto vivere. La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi prima ancora di mettere piede nell'Isola. Al momento dell'atterraggio sarà la voce del comandante ad informare che “tra pochi minuti atterreremo all'aeroporto Falcone - Borsellino”. I siciliani, i siciliani onesti amano quei magistrati caduti a meno di due mesi l'uno dall'altro. I mafiosi li rispettano, come li temevano quando erano vivi. (...)I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. “Invenzione” di Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti punti, innanzitutto l'esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa Nostra.
Già, il maxiprocesso. Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte. Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio cifrato del “baccaglio” mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e “tragedie” inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei poi “arruolati” dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che conoscevano e capivano per-
fettamente per averne trafugato, a suo tempo, la chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice “parola d'onore” che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli. Eppure Falcone e Borsellino non dovevano vedersela solo coi “bravi ragazzi” che maneggiano pistole, eroina e tritolo. La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati neppure nelle stanze che contano. Ovvio, si trattava di ostilità che si manifestava in modo diverso. Eppure quella ostilità pesava esattamente quanto le pallottole.
A Giovanni Falcone fu riservata prima la tagliente ironia del Palazzo di Giustizia di Palermo, poi la saccente campagna di stampa contro la presunta smania di protagonismo, quindi un vero e proprio “sbarramento” che gli avrebbe precluso il naturale ruolo di coordinatore delle inchieste sulla mafia. Analoghe difficoltà avrebbe poi incontrato Borsellino durante la sua permanenza a Palermo, dopo l'esperienza di Marsala, nella stanza di procuratore aggiunto.Una marcia lenta - quella di Falcone - verso la delegittimazione, fino al tritolo di Capaci, passando per l'inquietante avvertimento dell'Addaura (attentato fallito del giugno 1989) che si saldava con le “bordate” anonime degli scritti del “Corvo”. Quando Falcone salta in aria, Paolo Borsellino capisce che non gli resterà troppo tempo. Lo dice chiaro: “Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me”. Nessuna fantasia di tragediografo ha mai prodotto nulla di simile. A rileggere, oggi, gli ultimi movimenti, le ultime parole di Paolo Borsellino, ci si imbatte in un uomo cosciente della propria fine imminente, perfettamente consapevole persino del possibile movente, eppure incapace di tirarsi indietro. Forse speranzoso di potercela fare, forse rassegnato ad una morte che in cuor suo “doveva” al suo amico Giovanni.



Falcone e Borsellino e i boss mafiosi




Falcone e Borsellino: due nomi, un solo luogo del nostro immaginario collettivo, a testimonianza di una tragedia che ha colpito tutti, un intero popolo. E' difficile scindere questo binomio, impossibile parlare di Giovanni, senza immediatamente ricordare Paolo. Nella nostra mente si è insediato un automatismo che sarà difficile rimuovere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano uniti in vita, legati da un “mestiere” che per loro era missione: liberare la società civile dall'oppressione della mafia che nasce, vive in Sicilia.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino eroi soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee, per aver rifiutato la via facile dell'accomodamento e del quieto vivere. La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi prima ancora di mettere piede nell'Isola perché l’aereoporto è stato dedicato a loro. I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. “Invenzione” di Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti punti, innanzitutto l'esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa Nostra. Già, il maxiprocesso. Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte. Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio cifrato del “baccaglio” mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e “tragedie” inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei poi “arruolati” dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che conoscevano e capivano per-
fettamente per averne trafugato, a suo tempo, la chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice “parola d'onore” che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli. Eppure Falcone e Borsellino non dovevano vedersela solo coi “bravi ragazzi” che maneggiano pistole, eroina e tritolo. La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati neppure nelle stanze che contano.

Alcuni boss famosi:
Bernardo Provenzano
Nato il 31 gennaio 1933 a Corleone, da sempre uno dei capi più misteriosi di Cosa Nostra, per la mancanza di notizie certe sul suo conto. Non è un caso se, pur essendo attualmente in cima alla lista dei grandi latitanti, per molto tempo venne invece dato vittima della lupara bianca. Insieme all'amico Totò Riina, iniziò la carriera criminale nella banda di Luciano Liggio, che espresse nei suoi riguardi un famoso e lapidario commento: " Provenzano spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una gallina ". Fu uno dei protagonisti indiscussi della guerra alle cosche palermitane negli anni Ottanta. Al suo attivo tre ergastoli e altri procedimenti in corso e una latitanza di oltre trent'anni. Per molto tempo è stato considerato solo un killer senza scrupoli, ma nel corso degli anni gli investigatori hanno individuato in lui una delle menti organizzatrici del riciclaggio del denaro sporco. Alcuni collaboratori infatti hanno affermato che Provenzano
è il boss che controlla gli appalti e tiene i contatti con il mondo politico.
Leoluca Cagarella
Luchino, fratello di Antonietta, la moglie di Salvatore Riina, nacque il 3 febbraio del 1942 a Palermo. A partire dagli anni Sessanta, fu un esponente di primo piano dei corleonesi e uno tra i killer più spietati. I legami con i clan della camorra napoletana, per l'organizzazione del traffico di tabacchi e stupefacenti, gli costarono le prime incriminazioni. Nel 1969 il fratello Calogero rimase ucciso nella strage di viale Lazio. Sul finire degli anni Settanta il commissario Boris Giuliano lo braccò per tutta Palermo, sequestrando, a Punta Raisi, una valigia con il pagamento in dollari di una partita di droga e infine scoprendo il suo covo. Era troppo per Bagarella che lo uccise a sangue freddo in un bar palermitano, la mattina del 21 luglio 1979.Nel settembre dello stesso anno venne arrestato e rinchiuso all'Ucciardone, dove rimase per quattro anni. Nel 1986, alla vigilia del maxiprocesso, fu tratto in manette su disposizione del giudice Falcone e rimase in carcere fino al dicembre del 1990. Latitante di nuovo dal 1992, dopo l'arresto di Riina, divenne uno dei più im-
portanti boss di Cosa Nostra, dopo uno scontro con il clan Aglieri, dal quale uscì vincente. La sua latitanza ebbe termine il 24 giugno 1995, quando venne arrestato dalla DIA
Pietro Aglieri
E' nato il 6 giugno del 1959 nel rione della Guadagna, a Palermo. Da sempre è conosciuto con il soprannome di " ' u signurinu ", a motivo della ostentata ricercatezza nell'abbigliamento. Dopo aver studiato presso il seminario arcivescovile di Monreale e aver prestato il servizio militare come paracadutista nella brigata Folgore, si fece strada all'interno dell'organizzazione, guadagnando prestigio e rispetto nel corso della seconda guerra di mafia. Con l'avvento dei corleonesi al potere, divenne il nuovo capomandamento di Santa Maria di Gesù e un influente membro della Cupola. Nel 1995 il giornale britannico The Guardian lo indicò, provocatoriamente, come l'italiano più conosciuto al mondo. In questi ultimi anni Pietro Aglieri ha occupato i posti di vertice dell'organizzazione e ha stretto un patto di alleanza con Bernardo Provenzano per la ricostruzione di Cosa Nostra, indebolita dall'arresto dei capi storici della fazione corleonese e dal proliferare dei pentiti (collaboranti di giustizia). E' stato arrestato, dopo otto anni di latitanza, alla periferia di Bagheria, a Palermo, il 6/6/1997.
Subito dopo la cattura, suscitò scalpore il ritrovamento nel suo covo di una piccola cappella votiva e di numerosi testi sacri e filosofici: l'atteggiamento remissivo e vagamente mistico alimentarono le voci di un possibile pentimento ma il caso si sgonfiò dopo pochi giorni.
Giovanni Brusca
Nato a Palermo il 20 maggio del 1957, "u verru", vale a dire il maiale, seguì fin da giovane le orme paterne, intraprendendo la carriera mafiosa e diventando un killer feroce e responsabile di diverse decine di omicidi. Dopo alcuni anni di carcere, nel 1991 riprese in mano le redini della famiglia di San Giuseppe Jato, temporaneamente affidata a Balduccio Di Maggio, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. È stato un protagonista indiscusso dell'ultima stagione di sangue inaugurata da Cosa Nostra con l'omicidio di Lima. E' ormai tristemente noto come il boia di "Capaci", vale a dire l'uomo che azionò il telecomando che fece esplodere l'autostrada lungo la quale transitavano in auto il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Dopo l'arresto di Riina e Bagarella prese il comando dell'ala militare dei corleonesi, in accordo con Bernardo Provenzano. Fu arrestato il 20 maggio 1996 a Cannitello, in provincia di Agrigento, in compagnia del fratello Vincenzo.
Benedetto "Nitto" Santapaola
Benedetto "Nitto" Santapaola nacque il 4 giugno del 1938 in una famiglia di modeste condizioni sociali, residente nel degradato quartiere San Cristofaro di Catania. Da ragazzo studiò dai salesiani e frequentò l'oratorio, ma abbandonò presto la scuola e, attratto dai facili guadagni, realizzò le prime rapine. Venditore ambulante di scarpe e articoli da cucina prima, titolare di una concessionaria di auto poi, in realtà Santapaola, soprannominato "il cacciatore", fu uno dei capi mafia più potenti e sanguinari della Sicilia orientale.La sua fedina penale iniziò a riempirsi nel 1962 con una denuncia per furto e associazione per delinquere. Dopo essere stato diffidato dalla questura di Catania nel 1968 e inviato al soggiorno obbligato dopo due anni, nel 1975 fu invece denunciato per contrabbando di sigarette. Nel 1980 fu fermato durante le indagini sull'omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, ma l'accusa non fu provata e anche la successiva proposta di soggiorno obbligato non fu accolta. Del tutto indisturbato, Santapaola portò così a termine la scalata ai vertici di Cosa Nostra, eliminando prima Giuseppe Calderone, il capo mafia più influente di Catania (8 settembre 1978) e poi commissionando ai corleonesi la cosiddetta "strage della circonvallazione" a Palermo,
quando il rivale Alfio Ferlito fu ucciso insieme ai carabinieri che lo stavano scortando in carcere (16 giugno1982). Furono questi i due episodi più sanguinosi che contraddistinsero la feroce guerra per il predominio a Catania e nella Sicilia

Cronologia di mafia

1812
Il parlamento siciliano abolisce la feudalità.
1820
Squadre di contadini e popolani armati partecipano in Sicilia ai moti rivoluzionari
1838
Un magistrato di Trapani denuncia l’esistenza di “fratellanze” con finalità criminali.
1860
Spedizione dei “Mille”; le squadre di contadini vengono sciolte da Garibaldi dopo la conquista di Palermo,a Napoli Liborio Romano assolda i camorristi per mantenere l’ordine pubblico in attesa dell’entrata di Garibaldi in città
1861
Denunce sulla precarietà della pubblica sicurezza in Sicilia e sulla scarsa collaborazione della popolazione con giudici e poliziotti
1865
Per la prima volta il termine “mafia” viene utilizzato da un prefetto ( Carmine Dell’Aglio ) in un rapporto ufficiale.
1866
In settembre Palermo viene invasa da squadre di armati provenienti dai comuni vicini che restano padroni della città per una settimana.
1867
Una commissione parlamentare d’inchiesta indaga sui moti di Palermo.
1871
Il procuratore generale di Palermo spicca un mandato di cattura contro il questore, accusato di aver inserito mafiosi in politica, il questore si da alla latitanza e successivamente viene assolto in istruttoria
1874
All’inaugurazione dell’anno giudiziario il procuratore generale di Palermo denuncia apertamente il potere e le sue collusioni con le classi dirigenti locali
1875
A novembre una commissioni d’inchiesta parlamentare svolge un’approfondita indagine in Sicilia raccogliendo numerose e circostanziate testimonianze sulla diffusione del fenomeno mafioso.
1876
Un’inchiesta sulla Sicilia e la mafia viene condotta da Leopoldo Fianchetti, Sidney Sonnino, e Enea Cavalieri.
1877
La polizia denuncia per la prima volta due cosche mafiose presenti a Palermo e Agrigento composte da potentati del luogo e politici
1878
La corte d’assise di Palermo processa alcuni aderenti alla cosca degli “Stoppaglieli” e ne condanna due all’ergastolo ; il processo, annullato dalla cassazione è ripetuto a Catanzaro, conclude con una totale e generale assoluzione; per sfuggire alle indagini, alcuni mafiosi si rifugiano negli Stati Uniti, dove inizieranno una nuova vita criminale ampliando la già sostanziosa colonia di siciliani la presenti.
1880
Negli Usa si costituiscono bande criminali a base etnica ( irlandesi, ebrei, italiani) dedite all’estorsione e al controllo del gioco d’azzardo e alla prostituzione.
1883
A Palermo si conclude un grande processo alla famiglia degli Amoroso, conclusosi con numerose condanne.
1885
Il tribunale di Agrigento processa e condanna gli aderenti alla “Fratellanza” di Favara
1891
A New Orleans è ucciso il capo della polizia: undici italiani ( tutti di Palermo), sospettati di appartenere alla mafia e sospettati del delitto, vengono linciati dalla fola dopo essere stati assolti in tribunale
1893
Il 1° febbraio viene assassinato Emanuele Norarbartolo, ex direttore del Banco di Sicilia
1899
A Milano si apre il processo contro i mafiosi accusati dell’uccisione di Notarbartolo: emergono gravi indizi contro l’On Raffaele Palizzolo quale mandante del delitto( primo parlamentare accusato formalmente di appartenere alla mafia)
1901
Da una inchiesta della Regia Commissione emerge che la mafia ha in Sicilia oltre 3.000 adepti.
1902
La corte d’assise di Bologna Condanna l’on Palizzolo, ma il processo viene annullato dalla Cassazione.
1903
L’on Palizzolo è assolto anche dalla Corte d’assise di Firenze e rientra a Palermo accolto come un eroe.
1909
Joe Petrosino poliziotto italo-americano viene ucciso a Palermo, ero giunto in Sicilia per indagare sulla “Mano Nera” (mafia americana)
1916
Cesare Mori, comandante del servizio di squadriglie mobili per le province di Agrigento e Caltanisetta, cattura decine di banditi e criminali appartenenti alla mafia.
1925
Inizia la campagna di repressione voluta da Mussolini e attuata dal prefetto Mori.
1929
Termina l’azione del prefetto Mori mirata alla repressione del fenomeno mafioso, in quattro anni circa 300 presunti mafiosi sono arrestati e molti condannati
1929
Il 14 febbraio 1929 a Chicago, Alfonso Capone ordina il massacro di numerosi mafiosi a lui contrari ed appartenenti ad altre famiglie
1930
Alfonso Capone diviene il capo incontrastato della mafia americana
1931
Tra le famiglie Masseria e Maranzano scoppia la guerra per il controllo dl crimine a New York, dalla parte del vincente Maranzano si schiererà Lucky Luciano, di origine siciliana, e Vito Genovese di origine napoletana; alla fine del 1931 Maranzano viene ucciso
1932
Lucky Luciano viene arrestato.
1936
Lucky Luciano viene condannato a una pena da trenta a sessanta anni di carcere.
1943
Il movimento indipendentista sostenuto dalla mafia aiuta gli americani nello sbarco del 9-10 luglio.
1945
I separatisti siciliani iniziano la lotta armata e assoldano il bandito Salvatore Giuliano con l’aiuto dei servizi segreti Usa.
1946
La mafia uccide numerosi sindacalisti e politici di sinistra oltre che contadini e molti militari
1946
Lucky Luciano viene scarcerato per motivi di salute negli Usa, rientra in Italia, nel frattempo alla Sicilia viene concesso lo statuto di autonomistico.
1947
A Portella delle Ginestre il bandito Salvatore Giuliano spara sui manifestanti
1950
Salvatore Giuliano viene trovato morto
1954
Gaspare Pisciotta viene avvelenato in carcere , secondo la tesi più credibile fu lui a tradire ed uccidere Giuliano
1957
Gran vertice di mafiosi siciliani e americani all’Hotel des Palmes di Palermo, riunione per trattare il traffico di stupefacenti e dell’organizzazione di “Cosa Nostra” in Sicilia.
1962
Nasce la Commissione parlamentare Antimafia
1962
Per la prima volta un grosso esponente della mafia statunitense , Joe Valichi, collabora con le autorità e rivela la struttura di “Cosa Nostra”
1963
Scoppia la prima guerra di mafia in Sicilia, e l’episodio principale è la strage di Ciaculli.
1965-1970
La ’ndrangheta controlla gli appalti per la costruzione dell’autostrada del sole in Calabria
1970
A Palermo scompare il giornalista dell’ ORA di Palermo, il suo corpo non verrà mai ritrovato.
1971
A Palermo il procuratore della Repubblica Pietro Scaglione viene assassinato.
1974
A Milano viene arrestato il capo dei Corleonesi Luciano Liggio
1974-1975
Guerra in Calabria tra le cosche che fanno capo ai De Stefano e ai Tripodo.
1977-1981
Raffaele Tutolo detiene il predomino della camorra e stringe più forti legami con la mafia per il traffico delle sigarette e della droga
1977
Uccisi in Sicilia il colonnello dei carabinieri Russo ed un suo amico Filippo Costa
1978
Viene ucciso dalla mafia Peppino Impastato militante di Democrazia Proletaria
1979
In Sicilia vengono uccisi il capo della squadra mobile Boris Giuliano e il giudice Cesare Terranova
1980
Vengono uccisi in Sicilia, il presidente della Regione Piersanti Mattarella,, il capitano dei carabinieri Basile e il giudice Gaetano Costa
1981
Inizia una seconda guerra di mafia, i corleonesi di Liggio e Riina prendono il comando di Cosa Nostra in Sicilia.
1982
Uccisione dell’on Pio L a Torre deputato del PCI e il gen Dalla Chiesa Prefetto di Palermo, nell’agguato al gen rimane uccisa anche la giovane moglie
1983
Viene ucciso il Giudice Rocco Chinnici, consigliere istruttore di Palermo, nell’attentato muore il suo autista e il portiere dello stabile dove abitava il giudice
1987
Si conclude a Palermo il primo maxiprocesso a Cosa Nostra siciliana con pesanti condanne
1988
A Canicatti il giudice Antonino Saetta e il figlio vengono uccisi dalle cosche mafiose di Agrigento
1989
In Calabria viene ucciso il democristiano Ludovico Ligato ex presidente delle Ferrovie dello Stato
1990
Il giovane giudice Rosario Livatino viene ucciso a Canicattì
1991
A Palermo viene ucciso l’imprenditore Libero Grassi che si era rifiutato di pagare il “pizzo” alla mafia
1991
In Calabria viene ucciso Antonio Scopelliti procuratore generale della Cassazzione
1992
Terribile sequenza di omicidi, Salvo Lima, democristiano e uomo di Andreotti viene freddato in pieno centro. Giovanni Falcone a Capaci e Paolo Borsellino in via d’Amelio a Palermo vengono assassinati a distanza di soli 57 giorni l’uno dall’altro.
1993
Viene arrestato Totò Riina, bombe vengono fatte esplodere a Firenze , Milano e Roma provocando la morte di 9 persone. La procura di Palermo ottiene dal Senato l’autorizzazione a procedere contro il senatore Giulio Andreotti, per concorso in associazione mafiosa.
1995
Inizia a Palermo il processo al senatore a vita Andreotti.
1996
Giovanni Brusca viene arrestato.
1997
La mafia è silente
1998
La mafia è silente
1999
La mafia è silente
2000
La mafia è silente
2001
La mafia è silente
2002
La mafia è silente
2003
La mafia è silente

Vittime di Cosa Nostra

Con l'espressione Cosa nostra si è soliti indicare un'organizzazione criminale di stampo mafioso presente in Sicilia dagli inizi del XIX secolo, e trasformatasi nella seconda metà del '900 in una organizzazione internazionale.
In Sicilia il fenomeno è stato pesantemente arginato negli ultimi anni che sebbene abbia portato un radicale ridimensionamento di Cosanostra ne ha determinato un'evoluzione frammentaria e molto più indebolita che prende oggi il termine di Stidda,prevalente nelle provincie di Agrigento,Enna e Caltanissetta in primo luogo. Gli interventi dello Stato,che spesso però ha trascurato,anche volutamente il problema hanno contribuito in maniera determinante al ridimensionamento del fenomeno.In questo senso capitolo a parte fanno i giudici-magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,i quali lasciati soli dello Stato e rimettendoci la vita hanno distrutto il cuore di Cosanostra,che sembra sventrata con il recente arresto di Bernardo Provenzano ad opera della Procura Antimafia di Palermo ma non debellata visto che sta subendo l'evoluzione in Stidda(molto più debole e molto meno pericolosa ma pursempre di stampo mafioso). Negli anni '90 la Sicilia come Campania e Puglia venne militarizzata allo scopo di mobilitare la società civile,che ebbe i suoi risultati riscontrabili molto di più oggi avviando un processo di evoluzione ancora in atto e ad oggi in pieno e felice sviluppo nella nuova generazione.La sua origine è tradizionalmente messa in relazione all'antico fenomeno del brigantaggio, tuttavia è doveroso precisare che tale asserzione è poco condivisa; buona parte degli studiosi ritiene di retrodatare il fenomeno al XVI secolo, quando in varie parti d'Italia si erano formate congregazioni paracriminali sul tipo di quella citata dal Alessandro Manzoni, (I bravi e Don Rodrigo), nel suo capolavoro "I promessi sposi".
È costituita da un sistema di gruppi, chiamati famiglie, organizzati al loro interno sulla base di un rigido sistema gerarchico composto da gregari di diverso livello detti picciotti e da un capo detto padrino. Con il termine, "Cosa nostra", oggi ci si riferisce esclusivamente alla mafia siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d'America), per distinguerla dalle altre, internazionali, genericamente indicate col termine di "mafie".
Le origini
"Cosa nostra" nacque nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei fattori e dei gabellotti che gestivano quotidianamente i terreni della nobiltà siciliana e i braccianti che vi lavoravano. Era gente violenta, che faceva da intermediario fra gli ultimi proprietari feudali e gli ultimi servi della gleba d'Europa e per meglio esercitare il loro mestiere si circondavano di scagnozzi prezzolati. Questi gruppi divennero rapidamente permanenti assumendo il nome di "sette, confraternite, cosche": il primo documento storico in cui viene nominata una cosca mafiosa è del 1837, dove il procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, riferisce ai suoi superiori a Napoli dell'attività di strane sette dedite ad imprese criminose che corrompevano anche impiegati pubblici. Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaetano Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni del capoluogo siciliano. È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, che il termine mafia venne diffuso su tutto il territorio nazionale. Fin da allora la mafia si caratterizzava come una struttura al di fuori dello stato, ma strettamente legata ad esso.
Con l'unità d'Italia nella Sicilia della seconda metà del XIX secolo si accelerò il processo, già iniziato in precedenza, di smantellamento della struttura feudale ancora esistente nelle zone rurali e nelle campagne. Questo avvenne quando l'economia siciliana fu integrata in quella del resto del paese. Il governo piemontese inoltre si sostituì alla struttura sociale siciliana, fino a quel momento rigidamente divisa, senza però riuscire ad instaurare con essa un rapporto positivo. Se a questo si somma la necessità dei grossi latifondisti dell'interno dell'isola di affidarsi all'aiuto di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo e totale sulle proprietà e che se i possidenti non sentivano tale necessità, Cosa nostra si prodigava nel rendergliela evidente, ecco che si spiega come mai la Mafia fu involontariamente favorita dal Risorgimento italiano. C'è altresì da considerare come lo Stato Piemontese, non riuscendosi a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell'isola (la cui organizzazione sociale era fin troppo differente da quella settentrionale), cominciò a fare affidamento delle cosche mafiose, le quali, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale.Fu nel 1893, con il celebre delitto Notarbartolo, che l'esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia.
Anni 1990
Giovanni Trecroci (7 febbraio 1990), vice-sindaco di Villa San Giovanni
Emanuele Piazza (16 marzo 1990), agente di polizia
Giuseppe Miano (18 marzo 1990), mafioso pentito
Giovanni Bonsignore, (9 maggio 1990), funzionario della Regione Siciliana
Rosario Livatino (21 settembre 1990), giudice
Nicolò Di Marco (21 febbraio 1991),geometra comune di Misterbianco (CT)
Sergio Compagnini (5 marzo 1991), imprenditore
Antonino Scopelliti (9 agosto 1991), giudice
Libero Grassi (29 agosto 1991), imprenditore attivo nella lotta contro le tangenti alle cosche e il racket
Tobia Andreozzi (30/08/1990), ragioniere
Paolo Arena (27 settembre 1991), segretario DC di Misterbianco (CT)
Serafino Ogliastro (12 ottobre 1991), ex agente polizia di stato. Ucciso a Palermo da Salvatore Grigoli con il metodo della lupara bianca, poiché era stato nella Polizia di Stato i mafiosi di Brancaccio sospettavano fosse a conoscenza degli autori dell'omicidio di un mafioso, Filippo Quartararo. Al processo, Grigoli si autoaccusava dell'omicidio indicando altri 7 complici.
Salvo Lima (12 marzo 1992), uomo politico democristiano
Giuliano Guazzelli (14 aprile 1992), maresciallo carabinieri
Paolo Borsellino (21 aprile 1992), imprenditore ed omonimo del giudice Paolo Borsellino
Strage di Capaci (23 maggio 1992): Giovanni Falcone, magistrato; Francesca Morvillo, magistrato, moglie di Giovanni Falcone; Antonio Montinaro, agente di polizia facente parte della scorta di Giovanni Falcone; Rocco Di Cillo, agente di polizia facente parte della scorta di Giovanni Falcone; Vito Schifani , agente di polizia facente parte della scorta di Giovanni Falcone.
Strage di via d'Amelio (19 luglio 1992): Paolo Borsellino, magistrato; Emanuela Loi, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino; Walter Cusina, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino; Vincenzo Li Muli, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino; Claudio Traina, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino; Agostino Catalano, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino.
Rita Atria (27 luglio 1992), figlia di un mafioso, muore suicida dopo la morte di Borsellino con il quale aveva iniziato a collaborare
Giovanni Lizzio (27 luglio 1992), ispettore della Squadra Mobile
Ignazio Salvo (17 settembre 1992), esattore, condannato per associazione mafiosa
Gaetano Giordano (10 dicembre 1992), commerciante
Giuseppe Borsellino (17 dicembre 1992), imprenditore, padre di Paolo Borsellino anch'egli imprenditore ed omonimo del giudice
Beppe Alfano (8 gennaio 1993), giornalista
Strage di via dei Georgofili (27 maggio 1993): Caterina Nencioni, bambina di 50 giorni; Nadia Nencioni, bambina di 9 anni; Angela Fiume, custode dell'Accademia dei Georgofili, 36 anni; Fabrizio Nencioni, 39 anni; Dario Capolicchio, studente di architettura, 22 anni.
Pino Puglisi (15 settembre 1993), sacerdote impegnato nel recupero dei giovani reclutati da Cosa Nostra
Liliana Caruso (10 luglio 1994), moglie di Riccardo Messina, pentito
Agata Zucchero (10 luglio 1994), suocera di Riccardo Messina, pentito
Carmela Minniti (1 settembre 1995), moglie di Benedetto Santapaola, detto Nitto, boss catanese
Giuseppe Montalto (23 dicembre 1995), agente di Custodia del Carcere dell’Ucciardone
Antonio Barbera (7 settembre 1996), Tonino, giovane di Biancavilla, sfortunato figlio del popolo, massacrato a diciotto anni con una decina di colpi di pistola in testa, in un agguato in "contrada sgarro" (Catania). Gli omicidi non hanno ricevuto alcuna condanna dal processo, celebrato massimamente nell'aula bunker del carcere "Bicocca" di Catania; essi circolano spesso liberi per strada. Il processo è stato celebrato anche in Appello e Cassazione, senza che la famiglia del ragazzo venisse informata
Gaspare Stellino (12 settembre 1997), commerciante, morto suicida per non deporre contro i suoi estortori
Domenico Geraci (8 ottobre 1998), sindacalista
Filippo Basile (5 luglio 1999), funzionario della Regione Siciliana
Vincenzo Vaccaro Notte [1] 3 dicembre 1999 imprenditore di Sant'Angelo Muxaro (AG), assassinato perché non accettava condizionamenti mafiosi.
XXI secolo
Salvatore Vaccaro Notte (5 febbraio 2000), caposquadra forestale e fratello di Vincenzo, ucciso per non essersi piegato ai condizionamenti di una cosca locale meglio conosciuta come "Cosca dei Pidocchi".
Giuseppe D'Angelo (22 agosto 2006), pensionato, ucciso per sbaglio davanti a un fruttivendolo del quartiere Sferracavallo di Palermo perché scambiato per il boss Bartolomeo Spatola.